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 2014  agosto 06 Mercoledì calendario

La volontà sublime di non credere al mondo Cento anni fa nasceva lo scrittore argentino cosmopolita I suoi libri come indovinelli zen ma con una fantasia tutta occidentale Ernesto Franco Il 26 agosto 1914 nasceva Julio Cortázar

La volontà sublime di non credere al mondo Cento anni fa nasceva lo scrittore argentino cosmopolita I suoi libri come indovinelli zen ma con una fantasia tutta occidentale Ernesto Franco Il 26 agosto 1914 nasceva Julio Cortázar. A Bruxelles, mentre la città veniva occupata dalle truppe tedesche. «La mia nascita fu un prodotto del turismo e della diplomazia», dirà molti anni più tardi. La sua famiglia può tornare a Buenos Aires solo quattro anni dopo, con il piccolo Julio che parla soprattutto francese, con una «r» inconfondibile. Il padre, che Cortázar ricorda come un uomo molto bello, abbandona presto la famiglia e il piccolo cresce in un ambiente femminile, accanto a una madre che parla, oltre allo spagnolo, l’inglese, il tedesco, il francese ed è una lettrice onnivora. Julio è un bimbo abbastanza cagionevole di salute e ricorderà in seguito lunghi periodi di convalescenza durante i quali gioca con le parole come se fossero oggetti fantastici, slegati dalla loro immediata utilità pratica. Farà risalire a quel periodo la scoperta meravigliosa dei palindromi. Gli piacciono i mostri, come a molti bambini. Come pochi, legge di nascosto i racconti di Poe, di cui sarà più in là traduttore e splendido biografo. Suona il piano, poi la tromba e il sax, anche se si dichiarerà per sempre, da vero musicofilo, un musicista dilettante. A questi «inizi», in un certo senso, Cortázar rimarrà sempre legato, se non addirittura fedele. Il suo sarà un percorso sul confine di molte lingue, di molte parole in diverse lingue, di molti libri, di diverse culture ed essenzialmente di due città, Buenos Aires e Parigi, dove si trasferirà definitivamente nel 1951. Per usare una parola a lui molto cara, sono stati questi tutti «territori» che la sua fantasia di «porteño» cosmopolita ha attraversato costantemente trovando radici in nessuno di essi in particolare, ma solo nel suo particolarissimo modo di attraversamento. Cortázar è stato ed è ancora per tutti i suoi lettori non solo lo scrittore, ma l’uomo dei disincontri coltivati e invocati come chiave segreta della letteratura e dell’esistenza. La sua stessa idea di fantastico come fibrillazione metafisica del reale ha a che fare con questa idea dello spostamento progressivo dell’attenzione che è sempre sull’orlo di diventare una serissima distrazione. Nella musica, nella scrittura, nella vita. Dai racconti di Bestiario (1951) a quelli di Final del juego (1956), da quelli di Todos los fuegos el fuego (1966) alla racconta di Queremos tanto a Glenda (1980), passando attraverso la svolta capitale di El perseguidor (1959) e al romanzo capitale Rayuela (1963) è possibile rintracciare costantemente questa intenzione di disassare il mondo non alla ricerca di una verità assoluta, ma nell’amore filosofico per la precarietà dell’uomo e di ogni sua verità. Un maestro zen potrebbe sentire tale visione dell’uomo e delle cose assai vicina al proprio sentimento dell’impermanenza di tutte le cose. E, d’altra parte, i racconti di Cortázar potrebbero essere letti come koan, quelle interrogazioni che i maestri zen offrivano agli allievi non per riceverne una risposta o un’interpretazione, ma per interiorizzare l’idea di perturbante vuoto o mancanza che sta alla base dell’esperienza del mondo. Koan occidentali, naturalmente, perché, nonostante tutte le sue universali letture, Julio Cortázar rimane una sensibilità schiettamente occidentale, sia pure generata da una superba periferia com’è stata la Buenos Aires novecentesca, territorio che ha fatto della sua lontananza dal centro e della sua necessità centripeta la ragione profonda di una fortissima contemporaneità non solo all’Europa ma al mondo intero. Il sentimento del fantastico investe i racconti e i romanzi maggiori di Cortázar, ma dà forma, anche forma fisica, a libri che solo per pigrizia classificatoria si possono definire minori. Due per tutti. Le Historias de cronopios y de famas (1962) e Los autonautas de la cosmopista. Viaje atemporal Paris-Marsella (1983). Nel primo, Cortázar porta alla luce i cronopios, i famas e le speranze, ma soprattutto i cronopios, «dei palloncini verdi ma dotati di orecchie, una fisionomia pressoché umana, ma non erano esattamente degli esseri umani”… Esseri liberi, anarchici, pazzi, capaci delle peggiori sciocchezze ma anche pieni di astuzia, di senso dell’umorismo, di una certa grazia». I cronopios, come il nome che portano, non hanno precedenti e non hanno la nostra comune idea di senso. Buttano all’aria ogni pregiudizio, anche il più innocente e sono diventati per i lettori di Cortázar in tutto il mondo una categoria dello spirito. Nel secondo libro, scritto un anno prima della morte, quando era già molto malato, e scritto in collaborazione con la sua ultima compagna, anch’essa molto malata, Carol Dunlop, Cortázar redige il diario di un viaggio effettivamente compiuto poco prima. Ecco le regole: il percorso è Parigi-Marsiglia. Non è possibile uscire dall’autostrada. Si devono esplorare due aree di parcheggio al giorno, con sosta obbligata nella seconda per il pernottamento. Si possono ricevere beni di conforto dall’esterno. Si può usare qualsiasi cosa l’autostrada offra. Si deve tenere un minuzioso diario di viaggio. Ci misero 33 giorni. Chi lo ha definito uno struggente romanzo d’amore ha ragione. Non potendo fermare il tempo e il progredire del male, Cortázar e Carol Dunlop hanno combattuto applicando il fantastico. Lo hanno vissuto, cosicché l’ultimo libro è stata la trascrizione perfettamente realistica di un’esperienza fantastica in cui un viaggio nello spazio ha dilatato il tempo. A pensarci bene, questa delicatissima storia d’amore terminale è il contrario di un gesto faustiano. Non c’è niente di superumano o di dandystico nel viaggio degli autonauti, ma solo una molto umana idea di tempo e un elogio profondo dell’istante assoluto come unica possibile vera esperienza di noi tutti. Cortázar, con una certa cortazariana simmetria, muore a Parigi, il suo altro cielo, il 12 febbraio 1984.