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 2014  agosto 05 Martedì calendario

QUEI TRENTINI DEPORTATI SUI VAGONI BESTIAME

A LIEGI PER RICORDARE IL CONFLITTO MONDIALE PRESENTI RE, PRINCIPI E CAPI DI STATO
Non mancava nessuno ieri a Liegi (in Belgio). Alla cerimonia in occasione del centesimo anniversario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale erano presenti tutti i Paesi che vi presero parte. Hanno tenuto a esserci anche i duchi di Cambridge William e Kate e il re di Spagna Filippo VI. Per l’Italia, invece, ha partecipato il presidente del Senato, Pietro Grasso, in rappresentanza di Giorgio Napolitano. L’evento ha ricordato l’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco, avvenuta il 4 agosto 1914, senza una preventiva dichiarazione di guerra e in violazione della neutralità dichiarata dal Paese. In Vallonia si verificò allora il primo grande eccidio del Ventesimo secolo, con il massacro di oltre 5.500 civili. Le celebrazioni nell’Unione europea sono partite il 6 giugno, quando i Capi di Stato e di governo degli Stati membri hanno commemorato insieme l’anniversario della Grande Guerra a Ypres, sempre in Belgio.
Nove mesi di guerra (Vienna la dichiara il 28 luglio 1914) e anche l’Italia comincia a sparare: quel 24 maggio 1915 travolge Trento e le sue valli. Dall’altra parte del mondo arrivano lettere di disperata nostalgia: figli e mariti sepolti in Siberia o nei deserti che sfumano verso il Kazakistan. Ripetono lo stesso sollievo “sono vivo”. Sospiro nelle case sospese in una vita così diversa dalla vita di prima. Il loro piccolo mondo è cambiato. Negli alpeggi tagliano l’erba i prigionieri serbi ai lavori forzati che rovesciano l’Europa. Trentini servi della gleba in Russia; slavi servi della gleba nelle vallate malinconiche, speranze ogni giorno più sottili. Nei palazzi pubblici dormono i prigionieri dell’altro fronte. Carri e animali requisiti; requisite falci e badili. Scolari mobilitati nella raccolta delle foglie di gelso “per bachi da seta”. Quinto Antonelli racconta l’amarezza del luogotenente di Insbruck, monsignor Donato Perli, presidente del comitato per l’approvvigionamento di Tione, comune delle valli Giudaiche. “Hanno portato via il 32 per cento dei bestiami grossi. Burro, formaggio, fieno. Devastano le selve, spremono la borsa di milioni di corone per prestiti di guerra; requisiscono anche il paiolo della polenta…”. Sono gli stessi soldati che rubano le patate nei campi e bussano alle porte per mendicare qualcosa da mettere sotto i denti: fame.
SOLO UNA BORSA DA 5 KG
Altra novità è la tessera per le razioni alimentari modulate sulla dieta stabilita dalla Commissione di Sostentamento che amministra i depositi della pubblica amministrazione. Ormai quasi vuoti. L’economia va male per i sospetti che chiudono i confini. Proibite le esportazioni in Italia. Né legna né frutta attraversano la frontiera del Garda. Turismo “straniero” perduto: milanesi, veronesi, bresciani cambiano villeggiatura. Nessuno può allontanarsi dalla piazza del paese. Proibite le visite ai parenti delle contrade vicine con orti e pollai, insomma qualcosa da mangiare.
Vienna sa che Roma sta preparando la guerra. L’annuncio arriva la sera del 23 maggio 1915. Si apre il fronte italiano e una parola sconosciuta sconvolge 75mila trentini: “deportazione”, la prima nell’Europa del Novecento. Esodo obbligato dall’Adige alle valli di Isonzo, Carso fino all’Istria, porta via 230mila italiani dell’impero. Famiglie impacchettate nei vagoni bestiame, odori insopportabili e giorni e giorni per raggiungere campi di raccolta. I bandi raccontano di voler strappare la gente ai pericoli della guerra, ma la verità è complessa: gli alti comandi non sopportano la minaccia di un affratellamento, italiani-austriaci che possano riconoscersi negli italiani-italiani, affinità di lingua e cultura. E li portano via. Coi militari sulla porta le donne gonfiano le borse. Ordini che non si discutono: non più di 5 chili. Poche cose, nessun ricordo della vita di prima. “Emotivamente la partenza delle donne è più drammatica dell’addio dei loro uomini arruolati quel luglio del ‘14”. Finché c’è posto, sulle carrette, oppure a piedi, bambini per mano, trascinano i fagotti alle stazioni. Comincia il viaggio nelle tradotte dopo la scrematura di anziani e ragazzi requisiti per lavori militarizzati. E l’incertezza per la destinazione: non sanno dove vanno. Ultimo sguardo verso i campanili con lo strazio di non rivederli più, madri strappate dalla rete sociale che ne avvolgeva la serenità perduta. “Vengono colte da un tragico senso di amputazione ben sperimentato dalle profughe dell’intero Novecento”. Finiscono nei campi raccolta: Austria superiore, Austria inferiore, Boemia, Moravia, attorno a Linz non lontano dalla soffitta dove Hitler sbavava di rabbia per essere scartato dal servizio militare in quanto “denutrito e ridotto nell’intero aspetto da sembrare tisico”. Non lontano da Mauthausen e dall’orrore dei lager che il terzo reich allarga alla fine degli anni ‘30. Per le famiglie trentine “alloggi fatiscenti, cantine malsane, stalle e fienili” anticipano blandamente la disperazione dei campi dell’orrore che verrà dopo.
“Non sono d’accordo - osserva Antonelli - sulla parola deportazione. Esagerazione impropria. Direi evacuazione di profughi dalle zone di guerra anche se con aspetti costrittivi: campi sorvegliati, le modalità del trasferimento e costrizione militarizzata”. “Fui a Mitterndorf e scappai inorridito”, rapporto del decano di Rovereto monsignor Partelli. Nella lettera al marito prigioniero in Russia, Dosolina Zanelli fa sapere che il campo di Bernau è un inferno. Dormono su pagliericci “l’uno accanto all’altro, 150 in baracche che possono accogliere 400 persone, vecchi, donne e bambini separati da stracci e vecchie coperte. Brodaglie per calmare la fame”. Non è esagerato dire che nell’inverno del ‘15 le case di legno di Mitterndorf diventano cimiteri. Dei 1931 trentini morti a Mitterndorf, 875 hanno meno di 10 anni, “profughi involontari, vittime dell’amaro paradosso che trasforma sudditi austriaci con mariti al fronte, in sorvegliati speciali”.
LA PROTESTA DI DE GASPERI
Antonelli fa il ricercatore al Museo Storico di Trento ed è responsabile dell’archivio delle Scritture Popolari: non solo lettere dai campi di battaglia, anche la corrispondenza dimenticata eppure preziosa per interpretare sentimenti e visioni degli anni lontani. Diari, messaggi d’amore, messaggi tra amici. Sta per tornare in vetrina I dimenticati della Grande Guerra (Il Margine): filo dei ricordi legato dalle cartoline postali degli uomini sperduti in Siberia.
Protesta nel Parlamento di Vienna il deputato trentino Alcide De Gasperi dopo una visita all’esilio dei profughi in Boemia. “Trattati non da cittadini ma come oggetti da amministrare trascurando la loro volontà e i loro diritti... Nessuna legge dà diritto alle autorità di allontanare a proprio piacere la gente dai paesi dove abita, tantomeno chiuderla in campi di concentramento”.
Proprio “deportati”, quindi non evacuati, 1704 commercianti, insegnanti, impiegati, imprenditori, preti, piccola e grande borghesia internata per il sospetto di un’italianità che l’emergenza bellica considera pericolosa. Pericoloso il podestà di Trento e il primo cittadino di Rovereto, Valerio Malfatti per anni deputato e vicepresidente del parlamento di Vienna. Pericoloso il vescovo di Trento, Celestino Endrici, accusato di “fomentare il movimento nazionale”, irredentismo insopportabile. Lo confinano nella Selva Viennese, abbazia cistercense di Heilingenkreuz. Fa sapere al Papa qual è la vera colpa: essersi opposto “all’invadenza delle società pangermaniche d’ispirazione protestante”. Cautele parallele ma l’emarginazione non cambia.
Anche l’Italia non va leggera. Dichiara guerra e risale le valli e conquista paesi dove non sempre raccoglie l’entusiasmo che immaginava. Popolazioni confuse. Cambiano i poteri ma al lavoro e agli affari cosa succederà? Appena insediato ad Avio il generale Cantore incontra i notabili e non nasconde la delusione. Aspettava trombe e tricolori: il silenzio lo offende. “Non siete contenti di essere liberati. Guai se i miei soldati sapessero dei vostri sentimenti austriacanti”. Raccoglie nei brontolii delle invidie che agitano le piccole comunità informazioni sulle “persone ostili”. Colpevoli immaginari schedati e deportati a Ponza e Ventotene. Armando Vadagnini, ricercatore e storico trentino, racconta l’esodo delle popolazioni risucchiate dal vortice della guerra: “60mila arruolati nell’esercito di Vienna, 75mila condotti in Austria per lasciare libera mano ai reparti militari, 35 mila trascinati in Italia, 757 volontari nell’esercito di Roma”.
Esodi frettolosi quando nel ‘17 la Strafexspedition riconquista le contrade perdute nell’illusione di raggiungere la pianura sulla strada di Venezia. Carabinieri e soldati sgombrano in fretta i paesi. “Noi in fila verso la stazione - racconta Sisto Stefani di Grigno - L’ordine arriva all’improvviso. I nostri genitori riescono a vendere gli animali e chi non ce la fa li abbandona nella campagna”. Irma Bellini: “Stavamo mangiando e sono arrivati per ordinare di lasciare tutto come si trova. È il 26 maggio, giorno della Madonna di Caravaggio. “Qualche arresto e abbagli che non tengono conto della metodicità contadina lontana dai sospetti delle armi. Mario Avanzo di Pieve Tesino ricorda il padre mentre taglia il fieno nello spazio fra due fronti “perché bisogna tagliarlo”. Affila la falce e fa specchio col sole. Lampi che inquietano una pattuglia italiana: immagina chissà quali segnali alle linee austriache. In manette. A Vicenza vorrebbero la condanna a morte per alto tradimento. Diventano 18 mesi nelle prigioni di Venezia.
Anni fa un saggio di Vadagnini ricostruisce la dispersione dei profughi trentini. Incontra Cesare Nollo, vecchio maestro di Cognola trascinato nel vicentino, internato a Torre Santa di Brindisi, finisce nel Piemonte di Bra. Famiglie e comunità separate dall’italica virtù dell’improvvisazione anche se resta il dubbio di un disegno politico dovuto a informazioni più o meno avventurose sulle nostalgie di chi è cresciuto nell’impero all’improvviso nemico. Nei bollettini genitori vogliono sapere dove sono i figli, vecchie signore alla ricerca delle sorelle perdute. Vadagnini si informa di come vengano accolti i trentini nei paesi dell’Italia profonda. E Mario Avanzo, rifugiato a Vescovato, nel cremonese, ricorda la meraviglia dei padroni di casa. “Ci aspettavano vestiti di pelle di pecora, immaginavano di essere più civili di noi montanari. Restano a bocca aperta quando scoprono che sappiamo leggere e scrivere. Loro, analfabeti. Ci dettano lettere per i figli al fronte, leggiamo anche le risposte, in trincea qualcuno scrive per i ragazzi. “Nei funerali - si legge sul diario di Piera Pasqualini di Casteltesino, profuga nel Lazio - noi trentini andavamo in corteo ordinati e composti. La gente mormorava: guarda quelli lì come si comportano bene…”. E lei si stupisce per “come esprimono la devozione, in ginocchio nei pellegrinaggi fino all’altare della Madonna”. Nord che scopre il Sud: un po’ si piacciono, un po’ no.
I RAPPORTI CON L’ITALIA
Roma come li aiuta? Commissario e ministero dei profughi, sussidi di 1,25 lire al giorno agli adulti; 0,50 ai bambini. Ogni tanto pacchi americani (alleati dell’Italia): maglioni, giubbotti e “braghe di tela blu da operai”. Cominciano i jeans. Dal nord alla Sicilia figli e mariti al fronte e le braccia strappate al trentino ne prendono il posto nelle officine e nei campi. Donne giovani al servizio nelle famiglie agiate. La maestra Ines Boso, profuga a Chiaravalle di Ancona, dopo la scuola fa la bambinaia: cinque lire al mese.
Finisce la guerra e il ritorno strazia più della partenza. Intanto non risalgono l’Italia nel novembre della vittoria 1918. C’è chi arriva l’estate dopo. Mancano i trasporti. Macerie dov’erano le case, campagne abbandonate, ponti inginocchiati nei torrenti. Mario Avanzo scende dalla tradotta dove una volta c’era la stazione di Strigno. In un vagone abbandonato intravede due amici che cuociono le patate nell’elmetto militare. Non è rimasto altro. Ci si conta in ogni posto: mancano in tanti e spuntano facce nuove. Comincia l’Italia che si allunga nel ‘900: ombre che non piacciono a chi è cresciuto nel rigore dell’amministrazione austriaca. La Valsugana, soprattutto, non sopporta la novità. Il maestro Nollo ricorda a Vadagnini il malcontento: “Si infilano negli uffici, controllano gli appalti della ricostruzione. Certi meridionali in odor di mafia. È uno degli elementi che impedisce la simpatia profonda per l’Italia. Il fascismo ha fatto il resto”.
Tre intellettuali accompagnano il trentino dalla pace alla guerra: Cesare Battisti, Alcide De Gasperi, Ettore Tolomei. Vincenzo Calì, docente di storia all’università, ricercatore del Museo Storico di Trento e curatore dell’archivio Cesare Battisti, sta scrivendo un saggio sull’asimmetria dell’avventura politica di protagonisti così diversi. In Battisti si riconoscono i ragazzi borghesi della città. Studiano nelle università italiane e si aprono agli interessi sociali della nuova cultura. Insomma, quel socialismo del quale Battisti (deputato fra i socialisti di Vienna) è portavoce nel Popolo, giornale che dirige. Non importa se a Trento le fabbriche si contano sulle dita, quindi proletariato evanescente. I ragazzi approvano la tendenza di Battisti: “Più lotta di classe che battaglia per la libertà nazionale”. Quindi lontani dal De Gasperi deputato austriaco nel partito Popolare. Battisti si è laureato a Firenze, De Gasperi a Vienna e la “formula che definisce il suo programma annuncia una “coscienza nazionale positiva”. Quattrocento famiglie contadine associate in cooperative per rafforzare l’indipendenza economica sulla quale De Gasperi immagina di costruire l’autonomia politica. Quindi il futuro fondatore della Dc va a Roma per ottenere dal governo italiano “il permesso di transito per il grano che i trentini importano dall’America”. E insiste sulla neutralità. A Roma c’è anche Battisti. Scrive polemico alla moglie: “Come al solito ci sono qui deputati clericali trentini a far gli affari e peggio...”. Aveva sperato che l’Austria non accendesse i fuochi ma l’annuncio della guerra cambia idea: l’Italia non può guardare. È l’occasione per liberare il trentino. In quale posto far passare il confine? Sulla “formidabile linea del Brennero” o fermarsi a Salorno dove la valle dell’Adige stringe e finisce la lingua italiana? Alla vigilia della chiamata alle armi Battisti informa la moglie di aver fatto un discorso in Campidoglio. C’era anche D’Annunzio “che ha improvvisato male e ha poi acconciato bene per la stampa”. Intrigante e furbo. Inutile la visita a re Vittorio Emanuele III; bene l’incontro con il ministro della guerra per facilitare l’arruolamento degli irredenti”. De Gasperi è a Roma per invocare la neutralità. Inutilmente. Gli amici lo pregano di non tornare a Trento. “Devo essere vicino alla mia gente” e riattraversa il confine. Battisti diventa alpino del battaglione Edolo.
A lieto fine la corsa frenetica di Ettore Tolomei, nato a Rovereto con l’ombra di un nobiltà fiorentina mai accertata, si laurea a Roma, insegna italiano a Tunisi e Salonicco, diventa geografo a Vienna dove finisce il servizio militare. Quando scopre che la Società Geografica fissa il punto più settentrionale della penisola sulla cima del Glockenkarkof (naturalmente austriaco) scala e “conquista per primo la vetta”. Non è vero, altri due lo hanno preceduto ma Tolomei non cambia idea. E non sopporta paesi e strade con nomi tedeschi nel territorio che considera assolutamente italiano. Basta col Tirolo, inventa l’Alto Adige. Non negli anni di Mussolini ma nel 1916, durante il governo di Giolitti. Pubblica il Prontuario che trasforma 17.735 nomi tedeschi di paesi, città, vallate della provincia di Bolzano in altrettanti toponomi italiani. A volte per assonanza, a volte con traduzioni bizzarre. Sterzing diventa Vipiteno. Valle Fischeiland vuol dire valle dei Pesciolini. Troppo frivola per Tolomei: preferisce val Fiscaria. Quando si sfalda l’impero austriaco il professore impazzisce di gioia: confine al Brennero come ha sempre sognato. Promosso commissario per la lingua e la cultura dell’Alto Adige, impone l’italiano alla maggioranza dei tirolesi naturalmente di lingua tedesca. Giornali, radio, scuole, documenti, anche le preghiere in chiesa. Con divieti paranoici: proibisce i calzettoni bianchi della tradizione tirolese perché la vecchia moda richiama nostalgie da cancellare. Camicia nera e senatore a vita. La sua guerra finisce così.
L’alpino Battisti viene catturato e impiccato a Trento: cittadino austriaco e parlamentare che ha tradito l’imperatore. Quando torna la pace De Gasperi diventa deputato per i Popolari di Sturzo. La burocrazia rallenta l’incorporazione del Trentino ma Roma lo vuole subito in Parlamento. E comincia un’altra storia.
Maurizio Chierici, il Fatto Quotidiano 5/8/2014