Marcello Sorgi, La Stampa 5/8/2014, 5 agosto 2014
LA CONFUSIONE CHE DANNEGGIA L’ITALIA
Adesso tutti diranno che è la rivincita di Carlo Cottarelli, il «Mister Forbici» della spesa pubblica che solo una settimana fa aveva minacciato le dimissioni, contro il via libera della commissione Bilancio della Camera al pensionamento di quattromila professori fuori dalla rigida griglia stabilita dalla riforma Fornero, che ha da tempo spostato in avanti l’età pensionabile. Tra l’altro, era facile intuire che la decisione di fare uscire i quattromila era propedeutica all’assunzione di altrettanti nuovi insegnanti, in barba alle promesse di decurtare la spesa pubblica e senza alcuna copertura effettiva nel bilancio dello Stato. A chi, come Cottarelli, aveva fatto osservare che questo era un modo di far uscire dalla finestra soldi pubblici non ancora rientrati dalla porta, il presidente della commissione Bilancio Boccia, purtroppo applaudito subito da altri esponenti del Pd e della maggioranza di governo, e malauguratamente seguito qualche giorno dopo anche dal presidente del Consiglio Renzi, aveva replicato bruscamente che i tecnici devono rimanere al loro posto, e soprattutto devono stare zitti per lasciar parlare i politici.
Ieri appunto la politica ha ripreso la parola per bocca della ministra della Funzione pubblica Marianna Madia, che ha annunciato candidamente una retromarcia del governo sui quattromila della cosiddetta «quota 96» (la somma dell’età anagrafica e degli anni di servizio dei prof inferiore a quella richiesta dalla riforma Fornero), e ha riconosciuto che la decisione del Parlamento era stata presa senza verificare le necessarie coperture di bilancio. Intanto, a quel che si sa, i quattromila rischiavano di diventare rapidamente novemila. E a giudicare dalle proteste avanzate dai sindacati dopo l’annuncio della Madia, probabilmente si sarebbero moltiplicati ulteriormente nelle prossime settimane, un po’ com’è accaduto per gli «esodati» della stessa riforma, il cui numero cresce ininterrottamente da tre anni.
Cosa abbia convinto il governo a un’inversione di rotta così plateale, è presto detto. A parte il fatto che il Tesoro aveva manifestato il suo parere contrario già prima che i deputati della commissione decidessero di fare di testa loro, dopo Cottarelli sono stati anche il Ragioniere generale dello Stato Franco e lo stesso ministro dell’Economia Padoan a far sentire la propria voce. Renzi, che all’inizio aveva preso male l’uscita di Cottarelli, e lo aveva praticamente liquidato giovedì, davanti ai membri della direzione del Pd, di fronte alle motivazioni dei responsabili dei conti pubblici ha riflettuto e ha capito che era meglio frenare subito, anche a rischio di una brutta figura, piuttosto che avallare un pasticcio degno dei vecchi colpi di mano parlamentari della Prima Repubblica.
La sola sensazione che si fosse creata una crepa tra le maglie delle nuove regole pensionistiche, aveva infatti dato la stura a una serie di progetti, vociferati più che compiuti, di riforma della riforma previdenziale. Senza tener conto che - malgrado gli innegabili problemi provocati in seguito - solo tre anni fa era stata proprio la legge Fornero a riaprire in Europa un varco di fiducia per l’Italia, proprio nel momento in cui rischiava il default e il conseguente commissariamento da parte della Ue.
Era assolutamente inammissibile, tuttavia, che un capovolgimento come questo potesse avvenire all’inizio del semestre italiano di presidenza europea, e mentre aumentano, con tutta evidenza, le difficoltà di tener fede agli impegni presi a Bruxelles, in conseguenza di una situazione economica che si sta rivelando peggiore delle previsioni. Renzi se ne è reso conto e ha rimediato. Meno male.
Nel giro di una settimana è la seconda volta (la prima ha riguardato il decreto competitività) che il governo deve effettuare un aggiustamento di linea - chiamiamolo così, anche se la linea non è chiara - in materia economica. Se questo accadesse perché, pur essendo molto difficile, l’esecutivo fosse impegnato in un tentativo di coniugare l’indispensabile rigore nell’amministrazione con la necessaria ricerca di soluzioni per i problemi sociali che la congiuntura sta provocando, non ci sarebbe nulla da dire, pur in presenza di stop and go e ripensamenti, che del resto si verificano anche in altri Paesi, alle prese con una stretta economica che ha compiuto sette anni.
Ma il punto è un altro: se queste sperimentazioni, per usare un altro eufemismo, spuntano all’improvviso da un emendamento, o da un’imprevista manovra parlamentare, servono solo a far confusione e a danneggiare, agli occhi dei partner comunitari, l’immagine del governo e del Paese, proprio mentre è chiamato a ricoprire una così delicata responsabilità internazionale. Questo, e nient’altro, s’è goffamente realizzato la scorsa settimana alla Camera: e il governo ieri ha dovuto porvi rimedio.
Però non basta. Renzi deve dimostrare di aver capito - e far capire ai parlamentari che lo sostengono - che in questa fase, più che mai, governare è fare soprattutto quel che si deve, non ciò che si vuole. Non è il momento di aprire spiragli, o squarci che possono trasformarsi in falle del bilancio pubblico. Anche perché la toppa è quasi sempre peggio del buco.
Marcello Sorgi, La Stampa 5/8/2014