Pupi Avati, La Stampa 5/8/2014, 5 agosto 2014
Così gli scout mi hanno insegnato a vivere Pupi Avati Sono entrato negli scout nel 1947, all’età di nove anni, e naturalmente a Bologna, la mia città, in un gruppo legato alla parrocchia di San Giuseppe
Così gli scout mi hanno insegnato a vivere Pupi Avati Sono entrato negli scout nel 1947, all’età di nove anni, e naturalmente a Bologna, la mia città, in un gruppo legato alla parrocchia di San Giuseppe. La guerra era appena finita e noi lupetti prendevamo in qualche modo il posto di un altro «esercito» di bambini in divisa, i balilla. Per la verità le nostre erano uniformi molto difformi, nel senso che ciascuno se la faceva per conto proprio come poteva, con gli stracci che le nostre mamme trovavano in casa e cucivano cercando di fare del loro meglio. Eravamo però accomunati da due indumenti identici per tutti: il cappellone e il cinturone. Erano quelli a riempirci di orgoglio. Il cappellone e il cinturone ci davano l’idea di entrare nel leggendario mondo dei cow boy che cominciavamo a vedere al cinema. Per il resto, in quell’Italia povera del primo dopoguerra tutta l’attrezzatura degli scout proveniva da quel che gli americani avevano lasciato sul campo: mezzi di trasporto, tende, scatolette per il cibo... Abbiamo vissuto di rendita per anni sul lascito degli americani. Ma non eravamo certo bambini che fanno i capricci per i vestiti e le scarpe all’ultima moda; anzi, il fatto di utilizzare la roba usata dai soldati americani ci inebriava. Volevamo emularli, ci sentivamo al centro di una grande avventura paramilitare. Insomma avventura e cinema: stare negli scout era un grande, incredibile gioco, e un bambino non poteva desiderare di meglio. Ma i grandi vantaggi dello scoutismo, per me, non sono certo derivati dall’essermi sentito una specie di soldato, quanto piuttosto da un altro fatto. Ero un bambino insicuro, molto complessato, e il mondo scout mi ha aperto alla socializzazione. È allora che ho imparato quel «fare squadra», quel «fare spogliatoio» che è sempre stato uno dei miei punti di forza: quando aveva una mia jazz band; poi quando per vivere facevo il dirigente della Findus e organizzavo le riunioni con i venditori; infine sul set, da regista. Gli scout mi hanno insegnato a inseguire un fine e a condividerlo con altri. Credo di aver fatto, in quel mondo, esperienze che né la famiglia né la scuola ti possono offrire. Come i «fuochi di bivacco» prima di andare a dormire. Erano anche quelli momenti di socializzazione. Che potevano essere scherzosi, allegri, con scenette e barzellette. Ma anche molto seri: momenti in cui ci si confrontava, ci si raccontava, ci si confidava, sapendo che nessuno avrebbe mai fatto uso di dileggio di quel che sentiva. Se sono una persona che ha una certa facilità a raccontare se stesso senza nascondere le proprie debolezze e i propri errori, lo devo a quei momenti lì, ai «fuochi di bivacco». Come molte cose della mia infanzia e giovinezza, anche gli scout ricorrono in alcuni miei film. In «Un matrimonio», trasmesso quest’anno dalla Rai, ho raccontato un fatto vero, la storia di un ragazzo che morì precipitando da un ghiaione. Fu un momento dolorosissimo, eppure anche di grande unità. Ricordo che il campo continuò, e nessun genitore ritirò i propri figli: una cosa oggi impensabile. Sono rimasto negli scout fino a quando avevo 19 anni. Scoppiava allora in me un altro grande amore, il jazz. E il jazz era incompatibile con lo scoutismo: veniva dai bordelli di New York. Si riunì una corte marziale che mi impose di scegliere: o il jazz o gli scout. Scelsi il jazz e dovetti uscire. Ma le mie amicizie più vere restano quelle maturate in quei campi. Nella mia vita, subito dopo i miei genitori metto gli scout. Mi hanno insegnato soprattutto due cose. La prima è che bisogna dare un senso a ogni nostra giornata. La seconda è la sacralità della vita, in un tutt’uno con la sacralità della natura.