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 2014  agosto 05 Martedì calendario

LUBECCA IN UN APPARTAMENTO DI ROMA COSÌ MANN SI TUFFÒ NEI BUDDENBROOK


Il padre di Thomas Mann, Thomas Johann Heinrich Mann, era un grande mercante di Lubecca che, nel 1863, a ventidue anni, sostituì il padre nella direzione della ditta di granaglie Johann Siegmund Mann. Era colto, abile, industrioso, raffinato. Il 13 ottobre 1891 morì, a cinquantun anni. «Mi sembra ancora di vederlo — il figlio scrisse tempo dopo —, quando, sollevando un po’ il cilindro, usciva da una seduta del Senato tra due guardie di fanteria che gli presentavano le armi davanti al municipio: lo vedo accogliere con elegante ironia il rispetto dei suoi concittadini, e non ho mai dimenticato il lutto universale con cui, quando io avevo quindici anni, l’intera città lo accompagnò alla sepoltura». Nel testamento, il padre dispose lo scioglimento della ditta: il giovane Thomas non dovette preoccuparsi di trovare un mestiere, perché riceveva una buona rendita mensile.
Alla fine di marzo 1894, Thomas Mann raggiunse la madre a Monaco di Baviera: dapprima visse con lei, nel quartiere di Schwabing; e poi traslocò in abitazioni vicine o vicinissime a quelle della madre. Lì, a Monaco, si distaccò spiritualmente da Lubecca. La città smarrì, per lui, ogni consistenza reale: quasi non esisteva; con tutte le sue ditte, il porto e gli abitanti, era per lui poco più che un luogo di sogno. Non provava alcun obbligo nei suoi confronti, e si sentiva libero del dovere di usarle riguardi. Se il padre, membro del patriziato di Lubecca, fosse ancora vissuto, egli non avrebbe mai potuto scrivere I Buddenbrook .
L’anno dopo, insieme al fratello Heinrich, compì il primo viaggio a Roma. Nel dicembre 1897, a via Torre Argentina 34, al terzo piano, cominciò a scrivere I Buddenbrook . Ne discuteva con il fratello, col quale, forse, aveva progettato di scrivere il romanzo: aveva appena letto Renée Mauperin dei fratelli Goncourt, che lo entusiasmò per la leggerezza e la precisione del linguaggio. Pensava di comporre un libro di duecentocinquanta pagine, suddiviso in quindici capitoli: prese appunti, stese schemi cronologici e meticolosi alberi genealogici, raccolse materiale documentario, rivolgendosi a un parente del padre. Poi il libro si estese, si gonfiò, si moltiplicò: gli antefatti della storia di Thomas e di Hanno si allargarono; e ora il romanzo occupa settecentoquaranta fitte pagine nell’edizione Einaudi (la bella traduzione di Anita Rho). Qualcosa di simile, Mann commenta, era accaduto a Richard Wagner, quando La morte di Siegfried si trasformò nell’immensa tetralogia dell’Anello del Nibelungo.
Thomas Mann era giovanissimo: possedeva scarsissime esperienze narrative; eppure scrisse I Buddenbrook con agio, abbandono, autorevolezza, come se non avesse mai fatto altro nella vita. Mentre scriveva, la distanza si capovolse: Lubecca diventò di nuovo la città dove era nato, dove aveva vissuto e studiato distrattamente, dove aveva passeggiato con gioia. Quasi trent’anni dopo, disse del suo libro: «Avevo, nella giovinezza, una suscettibilità psicologica, una chiaroveggenza e malinconia, la cui natura non riesco a spiegarmi bene nemmeno oggi, che però mi procurava delle indicibili sofferenze». E ancora: «Ciò che mi premeva era il tentativo di un epos in prosa, influenzato da tutti i climi letterari, e per di più da Wagner, in cui far confluire le esperienze spirituali che avevano commosso la mia giovinezza»: cioè Schopenhauer e Nietzsche.
Il 13 agosto 1900, a venticinque anni, Thomas Mann spedì l’enorme manoscritto dei Buddenbrook all’editore Samuel Fischer di Berlino. Disse: «Il primo volume è noioso e il secondo è malsano»: chissà per quale ragione, perché il romanzo non è mai noioso né malsano. L’editore propose di ridurlo a metà: Mann era ricoverato nell’infermeria della guarnigione di Monaco («per una fastidiosa tendinite, che mi era venuta nell’esercitarmi al passo di parata»); e rispose con una lunga lettera a matita, dove spiegava all’editore che la lunghezza era una qualità essenziale del libro. Fischer comprese. Il romanzo uscì in due volumi nell’ottobre 1901: l’anno successivo, la nuova edizione economica in un volume ebbe un grande successo di vendita. Per tutta la vita di Mann, I Buddenbrook rimasero, malgrado la ricchezza della sua produzione successiva, un libro unico. Tutto quello che egli scrisse dopo, sia romanzi sia saggi (raccolti in Nobiltà dello spirito , con un saggio di Claudio Magris, a cura di Andrea Landolfi, Meridiani Mondadori 1997), riflette su quell’opera quasi miracolosa, interroga, si meraviglia, si stupisce, paragona. Mai questo era accaduto, in letteratura, a proposito di un’«opera prima».
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Malgrado l’iniziale distacco di Thomas Mann, I Buddenbrook sono dedicati a Lubecca, sulla quale egli scrisse anche tre saggi, raccolti nella Nobiltà dello spirito . La prima data è il 1813, quando il console Johann Buddenbrook si reca in un tiro a quattro nella Germania meridionale, a comprare grano per l’esercito della Prussia: l’ultima data è il gennaio 1876. All’inizio del romanzo, Lubecca ha trentasettemila abitanti: la città è chiusa: tutte le strade e le persone sono conosciute; il vento del vicino mar Baltico giunge alla città, «fischiando attorno alle orecchie e provocando una dolce vertigine, un leggero stordimento». Gli abitanti amano soltanto la loro ventosa ed umida città commerciale: per loro, la Baviera è un paese dove si mangia la torta col coltello e i membri della casa reale parlano un tedesco che non è tedesco; i bavaresi sono gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, gente sciatta e trasandata, pigra e leggera, pesante e superficiale. Il giudizio sulla Prussia non è più favorevole.
Il cuore di Lubecca sono le grandi ditte, che esportano e importano in tutta Europa grano, colza, pelli e pellicce, lana, olio, sansa, ossi. Le ditte dei Möllendorf, dei Langhols e dei Buddenbrook posseggono tradizioni severe; e formano se non una vera e propria aristocrazia, un patriziato. «Non sapevi — dice Thomas Buddenbrook — che anche in una piccola città si può essere un grand’uomo? Che in un modesto centro commerciale sul Baltico si può essere Cesare?». A Lubecca i grandi mercanti ricoprono altre cariche: presidenti della compagnia per la pesca delle aringhe, deputati presso il Dipartimento di finanze, presso la Revisione dei conti e presso l’Ospizio di Sant’Anna. Specialmente Thomas è circondato da un alone quasi leggendario: lo stesso che avvolgeva la figura del padre di Mann.
Come in Guerra e pace , le famiglia è tutto: l’unità della famiglia, forgiata attraverso la casa, gli affari, il denaro, il matrimonio, Dio. Nelle prime pagine del libro, i Buddenbrook abitano nella grande, vecchia casa della Mengstrasse, acquistata qualche tempo prima: essa era stata costruita nel 1682; mentre le generazioni si succedono, viene sostituita da altre abitazioni, quasi sempre immense. Marito e moglie non vi entrano mai per amore: le donne si sposano per contribuire al lustro della famiglia e della ditta. Ciò che importa sono le grandi doti. Persino Thomas, che in parte volge le spalle alla tradizione dei Buddenbrook, in una lettera alla madre parla così della moglie: «Io nutro per Gerda la più entusiastica ammirazione, ma non voglio scrutare nel mio intimo così profondamente da stabilire se, e fino a che punto, la dote cospicua che fin dal primo incontro mi fu con un certo cinismo sussurrata all’orecchio, abbia contribuito a questo entusiasmo. Io la amo, ma la mia felicità e il mio orgoglio sono accresciuti per il fatto che, facendola mia, consegnavo al tempo stesso un ragguardevole ammontare di capitali per la ditta». Thomas non potrebbe essere più tortuoso, complicato, ironico; ma anche il suo cuore, come quello di tutti i Buddenbrook, è nutrito sopratutto di marchi.
Thomas Mann non parla sovente di Balzac, che non aveva letto al tempo dei Buddenbrook : ma lo spirito di possesso che domina il romanzo ricorda inconfondibilmente quello della Comédie humaine . Tutto è possesso: persino le succulente colazioni della mattina, con granchi e vino di Porto, e tanto più le cene magnificentissime, che cominciano alle quattro del pomeriggio, e durano fino alle dieci di sera. Mann enumera le portate — carpe al burro con vecchio vino del Reno, tacchino ripieno d’un impasto di marroni, uva passa e mele, patate arrosto, verdure, composta, vino rosso della casa Möllendorf, vino greco giallo, baisers col sorbetto —; e risveglia, in noi che leggiamo, il profumo, il sapore, l’appetito del cibo.
Anche Dio fa parte del possesso. Sopra l’ingresso della casa del primo console Buddenbrook, sta scritto in caratteri antichi: Dominus providebit . Qualsiasi sventura accada, «bisogna cercare forza e conforto in Dio». È dubbio che questo conforto giunga sempre: Johann Buddenbrook ci crede, mentre il figlio Thomas oppone ai sentimenti del padre «una serietà riservata, un contagioso silenzio, un discreto tentennio del capo». Alla fine, tutta la vita della famiglia confluisce nel «famoso» quaderno con la copertina sbalzata e il taglio dorato. Tutti i Buddenbrook ci scrivono qualcosa: anche gli avvenimenti più modesti della cronaca quotidiana; e lo fanno con stile solenne e insieme con brevi tocchi istintivi e spontanei, da cui spira il rispetto della famiglia per se stessa, per Dio, la religione e la tradizione.
Come dice il sottotitolo, I Buddenbrook sono la storia della «decadenza» di una famiglia. È una decadenza intermittente, che si avverte, già nella prima metà del romanzo, in personaggi velleitari o eccentrici o falliti, che non obbediscono alla severa morale mercantile-patrizia. Ma la decadenza (nel senso di Nietzsche) precipita verso la fine, nelle pagine più belle del libro, dedicate a Thomas ed Hanno. Thomas è il culmine: in lui, i Buddenbrook portano all’estremo le proprie doti mercantili, e insieme allargano le dimensioni dello spirito. Egli è geniale negli affari, colto, raffinato, spiritoso, uomo di mondo: Lubecca e Mann gli conferiscono una specie di gloria. Ma, a meno di quarant’anni, Thomas diventa malinconico: gli sembra che qualcosa di indeterminato gli sfugga: la sua espressione vigile ed energica lascia il posto a una tormentosa stanchezza; gli occhi, rivolti con sguardo torpido e spento verso qualcosa che non vedono, arrossiscono e lacrimano. Lo slancio fortissimo della giovinezza lo ha lasciato: sente il vuoto nell’anima; e, a quarantotto anni, crede che i suoi giorni siano contati, che la morte sia vicina, sebbene sia impreparato a morire.
Hanno, il figlio di Thomas e di Gerda, è l’erede lungamente atteso e desiderato: l’erede implorato da Dio, su cui si fondano tante speranze. Ma non possiede nessuna delle virtù dei Buddenbrook. Da bambino è tardo nel camminare e nel parlare, ed è sempre malato. La bocca, atteggiata a un’espressione mesta e ansiosa, si accorda con lo strano sguardo degli occhi bruno-dorati cerchiati di ombre azzurre. Ama soltanto la musica: acquista rapidamente una chiara e profonda conoscenza di tutte le tonalità musicali, un’intima dimestichezza con le loro correlazioni. Improvvisa con grazia al piano, e trascrive bellissime musiche. Se a scuola non capisce le lezioni dei professori, al pianoforte afferra tutto ciò che il maestro gli insegna; e lo esegue, come ci si può appropriare soltanto di ciò che ci appartiene da sempre.
Il padre Thomas muore per una banale malattia ai denti: il figlio muore di tifo, e giace per sempre nel boschetto di casa, sotto la croce e lo stemma di famiglia. I Buddenbrook sono finiti: Thomas Mann seppellisce il suo libro nella tomba di Hanno; e lo conclude con un tocco lieve, che ricorda la futilità e la continuità della vita.