Elio Pirari, il Fatto Quotidiano 4/8/2014, 4 agosto 2014
JACQUES BRUNEL “NIENTE PRIMEDONNE, È UN’AVVENTURA DI SQUADRA”
[Intervista] –
Nel 2011 ha sostituito Nick Mallett, un sudafricano di origini britanniche interpretato dalla Federazione rugby come un effetto speciale. Con Mallett, un passepartout mediatico, trionfa la mistica della palla ovale, pinte e terzi tempi. Pur non capendo nulla di rugby migliaia di italiani puntano il binocolo sullo stadio Olimpico stregati dal nerboruto Castrogiovanni, manco fosse una danzatrice del ventre.
Mallett trionfa due volte contro la Scozia e batte la Francia, una vittoria storica, ma in quattro edizione del Sei Nazioni colleziona tre cucchiai di legno.
A maggio del 2011 gli subentra Jacques Brunel, francese dei Pirenei, uomo schivo, forse ruvido ma rapido di testa, assistente di Bernard Laporte, ex tecnico dei Bleus e sottosegretario allo Sport nel governo Fillon. Brunuel, nato sessant’anni fa nel dipartimento di Gers, terra di vini e di jazz, quando pensa al rugby parla di gioco fisico ma forse anche metafisico. E verseggia aulico sulle qualità del Tannet e dell’acquavite di Armagnac.
Brunel, cos’è per lei il rugby?
È un gioco di strada, esaltante, quasi eroico, il rugby non vuole primedonne. Forse non è appropriato definirlo sport, è un’avventura senza limiti.
Quali regole deve seguire un giovane rugbista?
La nostra è una disciplina di contatto. Dura, legata intimamente allo spazio in cui si gioca. Il rugby non prevede iniziative individuali, in campo non puoi mai pensare da solo, la sua specificità è questa.
Gli allenamenti devono essere pesanti.
Non mi risulta, ma forse io non faccio testo.
Tatticamente è un gioco complicato?
Il nostro compito è fare occupazione sottraendo terreno all’avversario, il rugbista corre sempre in avanti passando la palla indietro, il rugby è il gioco del paradosso.
Un buon rugbista è una specie di asceta?
Sopra ogni cosa è un buon atleta, in campo va gente alta più di due metri che si porta a spasso 130 chili, per tenersi in forma un buon rugbista deve faticare molto.
Quanto e come ci si allena?
Noi lavoriamo sei, sette ore al giorno tra campo, palestra, educazione tattica collettiva, individuale, e recupero.
E secondo lei noi italiani abbiamo questa predisposizione al sacrificio?
L’Italia è indietro, a scuola l’educazione fisica è un’ora di ricreazione ma creda, i licei francesi non sono un esempio illuminante.
Il 60 per cento degli italiani dichiara di non fare attività sportiva, la media europea è del 42.
Ma io non posso farci nulla, io devo lavorare con il materiale umano che ho a disposizione.
L’Italia ha più accademie rugbistiche della Nuova Zelanda, 32 centri Under 16 e 8 under 19. E un problema: da noi non ci sono
La mancanza di strutture è un problema reale. Per il resto le accademie hanno soltanto sei mesi di vita, bisogna saper aspettare. Non dimentichiamo che fino a pochi anni fa il rugby italiano era un mondo sommerso.
Le nostre due squadre più forti, Benetton Treviso e Parma, giocano un campionato estero, la Celtic League, come si fa a spiegare questa cosa a un tifoso italiano?
Non è facile, capisco. In Europa i tornei di livello tecnico alto si giocano solo in Francia e Inghilterra. Per risultare competitivi scozzesi, irlandesi e gallesi hanno creato la Celtic League alla quale da quattro anni partecipa anche l’Italia con due club. Per migliorare bisognava farlo. Da voi il calcio e una ragione di Stato, avete una Nazionale forte perché il vostro campionato è competitivo.
Lo dica a bassa voce. Nel 2001 la Fir aveva un badget di settanta milioni di lire, oggi è di 40 milioni di euro, dunque la Fir non se la passa male. Però i risultati continuano a non arrivare.
Le vittorie non sono legate solo ai quattrini, gli investimenti sono necessari ma da soli non bastano. Ma queste cose dovrebbe chiederle al presidente federale.
La maggioranza degli italiani di rugby non capisce nulla eppure la Nazionale riempie gli stadi, come si spiega? È una moda?, un fenomeno di costume?
Non lo credo, la bellezza del rugby è nella sua natura, noi giochiamo sotto al diluvio universale, quando nevica e quando fa un caldo infernale, la nostra filosofia è antagonista a quella del calcio, la gente che ci guarda ha la sensazione di respirare in uno spazio libero.
Sembra convinto.
Siamo atleti e sportivi umili, non è una stravaganza.
Giocare a rugby è come spaccare pietre in miniera?
In Francia diciamo che il rugby è uno sport per vivere insieme agli altri, l’etimo della parola allenatore è “durare alla fatica”.
Lei dopo cinquant’anni ha riportato il titolo francese a Perpignan, quello è stato il giorno più bello della sua vita?
Ho allenato quattro squadre diverse e ho sempre vinto. Ma quello sì, è stato un giorno particolare.
Lei dice che l’Italia deve giocare con spirito latino, ci riesce?
Solo in parte. Dobbiamo imparare a liberare la nostra creatività ma senza rinunciare alle geometrie, alla disciplina tattica e all’ordine.
Che differenza c’è tra un rugbista francese e uno italiano?
Gli italiani sono meno ubbidienti e non hanno la continuità e la capacità di concentrazione dei francesi.
Nelle accademie i ragazzi si impegnano?
Sì, ma c’è molto da fare.
Il vertice del nostro rugby, Treviso e Parma, è internazionalizzato ma la base sembra un sub-regione, come si riduce questa distanza?
L’Italia non possiede ancora un’economia capace di sviluppare una base competitiva, la Francia ha una storia secolare e 500mila tesserati, l’Italia 70mila.
Dicono lei sia un uomo di poche parole.
A volte i silenzi sono molto più assordanti delle parole.
La sua grande passione è il vino.
Ho cominciato a lavorare la terra da bambino, i miei erano agricoltori, nel Gers abbiamo colline e vallate ricche d’acqua coperte di vigneti.
Con il vino non si può improvvisare nulla.
La terra segue il suo ciclo naturale, la vigna è come una squadra, devi aspettarla con pazienza infinita.
Che vino si produce nel Gers?
Vino molto strutturato ma che per sviluppare ha bisogno di tempo, Tannet, Armagnac, vini d’aperitivo, Madiran, noi del Gers siamo gente fantasiosa.
Lei è molto legato al dipartimento del Gers.
È la terra dove sono nato, la terra del vino e del jazz.
Tornerà alla sua vigna un giorno?
Non sono mai andato via, alleno da 35 anni ma ogni anno vado a casa a controllare i tralci.
Elio Pirari, il Fatto Quotidiano 4/8/2014