Ferruccio Sansa, il Fatto Quotidiano 4/8/2014, 4 agosto 2014
I GENI CHE SOLLEVANO LE NAVI E L’ITALIA
Genova
Alla fine ci si sono messi il primo ministro con le scarpette tricolori, la parata dei potenti, ognuno a lasciar intendere che era merito suo se la Concordia era tornata, se era rimasta in Italia per portare lavoro. E poi quella folla come nelle grandi occasioni, in piedi dall’alba sulla spiaggia per accogliere la nave. Come se la Concordia non fosse in fondo una bara, una gigantesca bara, dove giace ancora il corpo di un uomo: Terence Russell Rebello, il marinaio indiano di 32 anni intrappolato nelle stive. Come se Genova non fosse grande per le navi che vi si costruiscono – le più belle, le più veloci – e non per quelle che si demoliscono.
Questo rischia di rimanerci negli occhi della grande parata del 27 luglio. Un groviglio di emozione e fastidio. Ma non sono state le fanfare e i discorsi a girare come un fuscello il colosso di 290 metri, di 115mila tonnellate di stazza, a rendere galleggiabile un ammasso di acciaio e lamiere che non è più una nave.
Dietro c’è una piccola storia, una di quelle che sembrano inventate apposta per essere raccontate la sera ai bambini. E invece è tutto vero: perfino quei primi calcoli buttati giù su un tovagliolo di carta in una trattoria della Marina di Ravenna. Così è nato il più grande recupero della marineria mondiale. Una storia di uomini in carne e ossa, di amicizia. Di genio, quella dote tipicamente italiana che nonostante tutto non abbiamo perso. Che è fatta di fantasia e improvvisazione, ma anche di competenza e di serietà. E di fiducia reciproca. Amicizia, appunto.
IL PROGETTO NATO IN TRATTORIA
Sono quattro uomini, quattro italiani, che hanno riportato la Concordia in porto: Silvio, Mario, Tullio e Giovanni. Se non ci fossero stati loro, con le loro intuizioni, chissà come sarebbe andata a finire. Certo, poi ci sono stati altri, come Nick Sloane, il senior salvage master, il capo organizzatore dell’operazione. Ci sono stati centinaia di tecnici di tanti paesi. Ma l’idea è nata da questi quattro amici. Gente tipo Coppi e Bartali, che francesi (e inglesi, in questo caso) ancor si incazzano, i tedeschi cercano di comprarsi e i cinesi di imitare.
È una sera del febbraio 2012, la Concordia è appena affondata e si stanno ancora cercando i morti. Ma bisogna già pensare al recupero. Subito, prima che la nave rischi di sprofondare dove sarebbe impossibile recuperarla. “Mario, come stai? Ci sarebbe questa opportunità…”. A parlare, da Ravenna, è Silvio Bartolotti, amministratore delegato della Micoperi, società specializzata anche nel recupero dei relitti. Aggiunge: “Dobbiamo presentare un progetto per riportare a galla la Concordia. L’Italia ha fatto una figuraccia, Ceccarelli mi ha proposto un’idea progettuale. Bisogna fare qualcosa. Ci stai?”. Dall’altro capo del filo c’è Mario Scaglioni, ingegnere navale con lo studio Spline, a Spinea (Venezia). Un professionista e un amico. Così come Tullio Balestra, della Tecon di Assago, e Giovanni Ceccarelli che ha uno studio di yacht design e ingegneria. In un attimo il quartetto è formato, non ci vogliono colloqui, questa è gente che lavora insieme da decenni. Basta un gesto per capirsi, non ci sono rivalità, protagonismi.
In quei giorni la grande macchina del recupero è già a pieno regime. In Germania, Inghilterra, America si sono mobilitati grandi società di progettazione, con centinaia di ingegneri, con una squadra specializzata in ogni minimo dettaglio dell’operazione. Con computer da decine di milioni di euro. Loro no: Silvio, Mario, Tullio e Giovanni si danno appuntamento in una trattoria di Marina di Ravenna. Si siedono intorno alla tavola, come tante altre volte, e tra un piatto di pesce e un bicchiere cominciano a parlare. Girano già voci delle soluzioni che i rivali stanno preparando: c’è chi vorrebbe riempire la nave di schiuma per farla galleggiare, altri propongono soluzioni ancora più fantasiose, tipo palline come quelle da ping pong da iniettare nello scafo. Tullio storce il naso. E basta sentire la sua voce, quel tono schietto, senza fronzoli, quell’accento lombardo – di gente pratica, concreta, ma tutt’altro che gretta – per capire che lui non è tipo da sparate. Soprattutto in un caso come questo, dove è in gioco il mare del Giglio, con il rischio che la nave possa spezzarsi. Sarebbe un disastro. “Presi un foglio”, racconta oggi Tullio, “e cominciammo a fare dei calcoli”. Senza calcolatrice, così, a mente. Alla fine lo guardarono insieme: sì, ce la potevano fare.
Sembra semplice, quasi banale, ma è un colpo di genio: “Niente soluzioni avveniristiche per rendere di nuovo la Concordia navigante. Quella non era più una nave, lo scafo era un colabrodo”. Allora? “Strand Jack”. Sì, semplici martinetti. Semplici, si fa per dire. Sono decine di cavi – chiamiamoli così per semplicità – che andranno installati sul fianco della nave e dall’altro capo fissati alle piattaforme sul fondale marino preventivamente costruite e installate sul fondale marino per dare appoggio al relitto dopo la sua rotazione. “Roba – spiega Balestra – che ognuno muove 500-1.000 tonnellate. Come un tiro alla fune nelle mani di un gigante: dove un braccio tira per il primo tratto, poi passa la corda all’altro braccio. Così faranno i martinetti, tiri brevi, meno di mezzo metro, lentissimi, poi via all’altra fune. Un computer regolerà tutto”.
Ti viene da sorridere a pensare che questa idea è venuta proprio da Tullio. No, non un uomo di mare, ma un “montanaro” – glielo vedi nella pelle spessa, nelle mani forti – del cuore più profondo della Valtellina. Però soprattutto un ingegnere che prima di occuparsi di operazioni in alto mare, ha speso anni viaggiando, cercando lavoro e idee in mezzo mondo: dal Brasile all’India. Un’altra dote italiana, l’adattabilità, l’apertura. E l’esperienza: prendi un frammento qui, uno là. A metterli insieme è la fantasia, che non è nemica dell’ingegnere. Anzi.
Nasce così l’idea del parbuckling, l’operazione che ha tenuto con il fiato sospeso mezzo mondo e ha consentito di far ruotare la Concordia. “Poi abbiamo verificato tutto al computer, mille volte, tenendo conto di tutte le possibili varianti”, racconta Scaglioni. Aggiunge: “Ma il computer arriva dopo, non ha fantasia, ma solo rapidità di calcolo. La scintilla gliela devi dare tu, sennò non serve a niente”.
Bene, ma come fissare quei cavi su una nave che dopo mesi, anni in acqua rischia di spezzarsi come un grissino? Ceccarelli propone una soluzione. E chissà se sia mito o verità, poco importa, l’idea arriva all’improvviso. Quando meno te l’aspetti. Magari mentre sei bloccato in mezzo alla Pianura Padana, su un treno fermo per colpa della neve. Giovanni (come ha raccontato Marco Imarisio sul Corriere) tira fuori i fogli degli schizzi. Ecco la Concordia avvolta da cavi e argani. Ognuno al posto giusto. Così nasce lo schizzo che i quattro amici hanno conservato fino a oggi e che si è dimostrato validissimo, confermato dai calcoli di tutti i computer e dal risultato.
MARIO E IL SOGNO DI UN BAMBINO
Bene, la nave è girata. Ma poi, come starà a galla? Ora tocca a Mario. Anche lui non era un uomo di mare, è nato a Fabriano (ha 67 anni, uno in più di Balestra, gente di esperienza). “Il mare – racconta – l’ho scoperto a Genova, da bambino. I miei genitori mi portavano a Ponte dei Mille a vedere i grandi transatlantici partire. E io, in uno di quei giorni dell’infanzia, ho deciso: avrei progettato le navi”. Così è stato, gli studi nella prestigiosa facoltà di Ingegneria di Genova (anche se oggi pare dimenticata, dalla sua stessa città), i viaggi intorno al mondo. Fino alla decisione di aprire quello studio nel veneziano. “La nave non aveva più la spinta di Archimede che la tenesse a galla”. L’acqua non era più alleata, ma nemica; non la sosteneva, la spingeva a fondo”, racconta Mario. Così è nata l’idea di quegli immensi cassoni di acciaio (costruiti da Fincantieri). Alti come palazzi di undici piani. Riempiti di aria compressa. Trenta, perché se uno cedeva, la nave reggesse lo stesso. Una mente da ingegnere, Mario, ma senti che la sua visione del mare, delle navi è anche sentimento. Lo capisci quando parla del mare “che è stupendo, ma terribile e in un anno si mangia tutto”. Quando descrive le navi: “Non sono soltanto cose, sono vive. Non è un caso se gli inglesi per parlarne usano il femminile “she” e non il neutro “it” degli oggetti”.
Sembra di rivedere il bambino che guardava i transatlantici dalla riva, quando ti svela ogni dettaglio delle navi che hanno fatto l’orgoglio dell’Italia: l’Andrea Doria, la gemella Cristoforo Colombo, poi la Leonardo da Vinci, simile, ma un po’ più grande. Fino all’ultima pagina del libro dei grandi transatlantici italiani: Raffaello e Michelangelo. Grandi, velocissime, con quello scafo bianco, quei camini a griglia di un’eleganza ineguagliabile. Sono state cedute all’Iran che poi le ha abbandonate. Senza rispetto, come ferro vecchio. “Io c’ero il giorno che la Raffaello ha lasciato Genova per l’ultimo viaggio”, a Punta Chiappa, quella lingua del monte di Portofino che è insieme roccia e mare. “C’era un mare grigio – racconta Mario – che pareva olio, il cielo era basso, senza colore, opprimente. Ti toglieva il respiro. La grande nave uscì dal porto, pareva ancora più bianca, seguì tutta la costa, per salutare la sua città, i marinai, i capitani che vivono qui. Fino a Camogli, patria di grandi uomini di mare. Provai una tristezza enorme”. Proprio come quella di chi scrive, che, bambino, osservava la scena con i compagni di scuola. Salutando dalla finestra, ma sapendo che era un addio.
QUEL TOCCO ITALIANO
Ma cosa significa per Silvio, Mario, Tullio, Giovanni la genialità italiana? “Fantasia e flessibilità”, ti risponde Balestra, “Gli altri paesi hanno grandissime competenze, immensi studi. Noi no, siamo piccoli, ma proprio per questo sappiamo adattarci, abbiamo tempi di reazione immediati”. Ma non solo: “C’era anche il senso di fare qualcosa per il nostro Paese… e poi essere insieme, uniti, amici, mitiga la tensione nei momenti critici”, aggiunge Ceccarelli. E Scaglioni: “Mi ricordo quando ho dovuto progettare un traghetto con i coreani. Gente preparata, una squadra enorme. Quando si parlava dello scafo ti arrivavano dieci ingegneri. Per discutere del sistema di ventilazione, del motore, altri dieci tecnici. Ma il mio socio ed io eravamo sempre solo due. Ecco: noi non abbiamo magari un esperto per ogni dettaglio, non ci specializziamo. Ma abbiamo una visione di insieme che ci aiuta a capire gli effetti di ogni decisione sulle altre parti della nave”.
E poi anche l’applicazione, quella disciplina così diversa da quella tedesca: due anni e mezzo di lavoro, sette giorni la settimana, con quel pensiero che non ti mollava mai. “Ricordo le telefonate la domenica sera agli ingegneri del Registro Italiano Navale: scusa, mi puoi mica dare il tuo parere su questi calcoli?”.
Eccoli gli uomini nascosti della Concordia. Due giorni dopo l’arrivo della nave in porto si sono ritrovati in un bar di Boccadasse – il borgo marinaro nel cuore di Genova – per una birra insieme. Da domani saranno tutti tornati alle loro vite. La Concordia sarà soltanto passato. C’è soprattutto emozione, come quando raccontano il momento in cui la nave è salpata dal Giglio. “Ci siamo commossi, tutti”, non si vergogna ad ammetterlo Scaglioni. E conclude: “Abbiamo lavorato per farla tornare a essere una nave. Perché andasse a morire”. E forse senza accorgersene rivela il vero segreto di questi geni italiani e di tanti altri sconosciuti: l’umanità.
Ferruccio Sansa, il Fatto Quotidiano 4/8/2014