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 2014  agosto 04 Lunedì calendario

I penultimi a finire sott’acqua, appena cinque giorni fa sui pendii di Collagù e a dieci chilometri dal Molinetto della Croda, avevano provato a prenderla con filosofia: «Sarà una vendemmia anticipata», parola di viticoltori, dei produttori dell’oro e del veleno di queste colline del Quartier di Piave, triangolo di terra che parte da Valdobbiadene e si irradia a Vittorio Veneto e a Conegliano

I penultimi a finire sott’acqua, appena cinque giorni fa sui pendii di Collagù e a dieci chilometri dal Molinetto della Croda, avevano provato a prenderla con filosofia: «Sarà una vendemmia anticipata», parola di viticoltori, dei produttori dell’oro e del veleno di queste colline del Quartier di Piave, triangolo di terra che parte da Valdobbiadene e si irradia a Vittorio Veneto e a Conegliano. Il prosecco e le sue aziende, i filari di bollicine e i vigneti che hanno mangiato centimetro per centimetro i colli sui torrenti Soligo e Lierza, terre fragili d’argilla e di marna, calcaree e naturalmente incapaci di trattenere e drenare piogge normali, figuriamoci quelle eccezionali di luglio: 280 millimetri di precipitazioni, 370 se ci aggiungiamo l’ultima settimana di giugno. Letti colmi, argini esausti, tappo pronto a saltare in questi «luoghi bellissimi ma gestiti con scriteriata avidità», lamenta su Facebook lo scrittore Fulvio Ervas all’indomani del disastro: «Ma che imbecillità chiamarle bombe d’acqua, come se ci fosse una guerra delle nuvole contro di noi. Siamo noi che ci bombardiamo da soli. I danni sono in funzione della nostra assenza di lungimiranza». Combattere battaglie ambientali contro i predoni del territorio, nel Veneto che correva a produrre prima e che ora deve sopravvivere alla crisi, pur col suo 56% di territorio a rischio idreogeologico (rischio alto per 525mila abitanti, dati di Coldiretti e Consiglio Nazionale Geologi), è sempre stato un mestiere faticoso. Un esercizio infinito, a sfidare il mantra di Innocente Nardi, presidente del Consorzio di Tutela del Prosecco docg, a ogni cedimento dei terreni: «Eventi atmosferici straordinari». Soltanto l’anno scorso la Comunità montana aveva ceduto un pezzo del bosco sopra il Molinetto a un imprenditore vinicolo, quasi 15 ettari tra Val de Rustè e Case Todesco. Raccolte di firme, puntuale frana a fine febbraio, impegno del comune di Tarzo a risistemare i sentieri attorno al Lierza. Sembrava la volta buona per invertire la tendenza. Forse avevano fatto impressione quegli smottamenti a Farra di Soligo e a Valdobbiadene, la roccia venuta giù sopra Cozzuolo e Formeniga, i terrapieni ceduti a Fregona e Sarmede, gli allarmi nel felettano e a Segusino, sulla strada del Medean. Le colline care al poeta Andrea Zanzotto sotto costante minaccia. Terreni pregiati, sempre più ricercati, distretto prossimo a essere tutelato dall’Unesco nonostante il progressivo sventramento, e questo è il paradosso estremo. È vero, di fronte all’enormità delle quattro vittime del Molinetto della Croda, nessuno, nemmeno l’ambientalista più incallito, si spinge a collegare direttamente l’esondazione assassina all’ubriacatura da prosecco: «È stato un evento diverso dalle solite frane — ragiona Nicola Zonin, responsabile locale di Legambiente — ma qui le esondazioni ci saranno sempre. E i danni il più delle volte sono causati da chi poi si mette in fila a chiedere i danni». L’ultima grande alluvione, quella che aveva messo in ginocchio l’intero Veneto tra il 30 ottobre e il 2 novembre 2010, quando in quattro giorni erano piovuti quasi 800 millimetri d’acqua, era costata immediatamente 300 milioni di euro di stanziamenti governativi, danni per almeno tre volte tanto. Vicenza sommersa dal Bacchiglione, il padovano e il veronese nel fango, 120 comuni allagati e il trevigiano, al solito, nel cuore della tormenta. Lo stato di calamità, chiesto dal governatore Luca Zaia allora come oggi, riporta indietro l’orologio. «Zaia — lamenta il sociologo ed ex assessore comunale a Venezia, Gianfranco Bettin — dovrebbe pensare a nuove strategie e non solo a inseguire gli eventi. In Veneto non c’è manutenzione, si ripetono disastri annunciati e a chilometro zero, slegati da fenomeni globali di cambiamento climatico. Lo sfruttamento intensivo ed estensivo di alcuni pezzi di territorio, questi vigneti che non sono più quelli di una volta ma seguono il ciclo produttivo industriale, drenano e consolidano il terreno molto meno rispetto a trent’anni fa. Proprio lì, negli ultimi 7-8 anni, si sono verificate le catastrofi più grandi». Tocca ripartire e ricostruire, a valle e a monte delle strade del vino, oltre la gestione dell’emergenza da parte del Genio Civile. Il governo, tramite il capo di Italiasicura Erasmo D’Angelis, annuncia lo sblocco dei cantieri anti-dissesto: «Abbiamo già effettuato incontri con tutte le Regioni, a partire dal Veneto, per individuare le opere più urgenti da realizzare».