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 2014  giugno 28 Sabato calendario

I SOLDATI “ITALIANI” CHE CECCO BEPPE MANDÒ IN SIBERIA


Cento anni fa, 31 luglio 1914, i trentini vengono a sapere della dichiarazione di guerra. Se ne parlava da un mese dopo quei colpi del 28 giugno a Sarajevo. La dignità dell’imperatore doveva schiacciare la Serbia per aver ispirato il complotto fatale all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono. Se ne parlava a Vienna; se ne parlava nel Trentino angosciato dall’ipotesi della catastrofe che vignaioli, montanari, intellettuali immaginavano di non sopportare. Voci di voci. Nodo che il sovrano scioglie il 28 luglio 1914, 30 giorni dopo l’attentato: 390 mila sudditi di lingua italiana chiamati alle armi nelle valli attorno a Trento; 62.500 a Trieste e in Friuli. Divisa grigio azzurra: partono i figli assieme ai padri che hanno appena compiuto 42 anni. Per riscaldare il patriottismo degli scontenti, fiaccolate e musica dei reggimenti di lingua tedesca. Attraversano Rovereto e Trento, castelli illuminati da torce piegate dal vento. Ma non è una festa. Gli “italiani” diffidano delle fanfare e riversano nei diari la malinconia dell’ultimo giorno nella patria che forse cambierà bandiera.
L’annuncio li raggiunge all’improvviso, racconta Quinto Antonelli autore de I dimenticati della grande guerra in frettolosa ristampa del Margine, prima edizione bruciata. Li raggiunge sul monte Vies, dove tagliano il fieno. “Servi del comune” si arrampicano con l’ordine del “dovete partire”. Spiega Antonelli che ogni ricordo comincia più o meno allo stesso modo: nei campi o mentre si chiudono le botteghe o sotto le lanterne delle cene di famiglia. Le mogli tremano. Osterie che si riempiono nella notte più lunga. E appena schiarisce, in chiesa per la benedizione.
Partono nei vagoni bestiame delle tradotte. Destinazione Galizia. Pochi sanno dov’è: al confine dell’impero non più felix, 6 giorni di viaggio per affrontare i cosacchi dello zar. A Vienna “molti signori attendevano il nostro passaggio e dal fondo della stazione si avvicina un personaggio: Zita Borbone Parma, arciduchessa d’Asburgo”. Sarà l’ultima imperatrice. “Le sue ancelle distribuiscono medaglie con l’effigie del sacro cuore” e guidano i soldati verso una piazzetta di bancarelle “come nei giorni della sagra”. Cioccolate che i ragazzi vorrebbero pagare. “Solo un regalo…”. Bon ton che svanisce nei Carpazi. Stazioni dai nomi che aggrovigliano z, k, t, h: impossibile pronunciarli.
I violini degli zingari provano a far festa, ma nessuno ride. E poi il fango della Galizia, bambini negli stracci allungano la mano della carità. Cariche all’arma bianca falciate dalle mitragliatrici. Quei cosacchi senza pietà, eppure si piegano sui trentini per consolarli dopo averli colpiti. Qualcuno si salva nascosto fra i cadaveri: racconti delle cartoline postali che la Croce Rossa danese e svedese recapita nelle case vuote malgrado il filtro della censura austriaca. I racconti passano per le allusioni a storie di famiglia che per i burocrati è impossibile decifrare. Spiegano come vanno le cose. Trattati come bestie dagli ufficiali tedeschi. Nessuna tenerezza verso i triestini. La gente di mare osserva con supponenza la gente di montagna che non ne sopporta il disprezzo. Lo storico Armando Vadagnini (Le pagine dimenticate della storia del trentino) fa capire l’imbroglio del mito Trento-Trieste gonfiato dalla propaganda. I triestini sbandieravano ricchezza e cultura di una città aperta alle fantasie del mare. Rabbia dei trentini “dalle scarpe grosse”. Poi il dramma di chi si arrende alle divise dello zar. Sussurri misteriosi sulle linee del fronte. Gli scontenti alzano le mani e passano dall’altra parte . Attacchi, ripiegamenti, migliaia di morti: arrivano i giorni del disastro. I russi sfondano e nell’inverno terribile, 15 mila trentini finiscono ai lavori forzati o fra le baracche del campo di Omsk, Siberia, alla frontiera col Kazakistan.
Quasi la fine del mondo. Campo dove Dostoevsky aveva pagato il sospetto di appartenere a una società segreta avversa agli zar. Topi e colera, 40 sotto zero ispirano le allucinazioni di Memorie nella casa dei morti. Ma i “lavori forzati” non devono ingannare. I trentini preferivano sgobbare nei campi o sulla pialla dei falegnami o negli scavi delle miniere . Le slitte dei proprietari li aspettavano in piccole stazioni dove cominciava la scoperta di un medioevo insospettato. Devozioni quotidiane delle famiglie senza lustro, a gruppi ammucchiate in case di legno e obbligo ai prigionieri di partecipare a lunghe preghiere “dai brontolii che non capivamo”. Ma i rapporti diventano subito buoni. Con le ragazze, soprattutto. Si accendono passioni che gli armistizi a volte non riescono a sciogliere. Ci si disperde dimenticando famiglie, amici, il passato. Spariti in Siberia senza la certezza del perché.
Fin qui più o meno la storia di ogni guerra dove i protagonisti senza censo diventano carne di nessuno. Lo zar offre a Roma il ritorno dei prigionieri, ma i Savoia non accettano per non rompere la finzione della neutralità necessaria ai tempi del riarmo. L’Italia non era pronta. Per gli “irredenti” che vogliono cambiare cittadinanza si apre il campo di Kirsanov, 600 chilometri a sud di Mosca, ancora cameroni immensi; la disperazione non cambia nella testimonianza di Ceccato, mercante d’arte trentino, vita morbida attorno al Cremlino.
Visita Kirsanov anche Virginio Gayda, giornalista de La Stampa. La loro indignazione sveglia il consolato italiano: “irredenti trattati come bestie”. Non ha senso tenere alla catena cittadini che hanno cambiato divisa, alleati dello zar dal 24 maggio 1915 quando Roma comincia a sparare. Allora, è finita? L’illusione trasforma Kirsanov nell’anticamera del ritorno, mentre i testardi dispersi in Siberia restano fedeli a Vienna per difendere posti di lavoro, orti e piccole proprietà: “Patria vuol dire dove si sta bene, la casa sua, molii e filii, quelli sono la patria”. Non si fidano delle novità anche se cominciano a ricredersi: nel gelo di Osmk muoiono come mosche e Kirsanov diventa l’illusione di chissà quale ritorno. Intanto, vita dura. Marce di trasferimento da Kirsanov ai campi di lavoro: neve, gelo, scarpe di paglia. Mangiano brodaglie riscaldate da militari russi, ma sono i militari ormai “italiani” a improvvisare un piccolo ospedale. E nell’attesa delle partenze-rimandate-cancellate resuscitano le abitudini dello stare assieme con l’allegria delle vallate.
Organizzano cori, un’orchestrina, pubblicano un giornale patriottico: “La nostra fede”. Quasi liberi nella costrizione. E poi il balletto delle partenze rimandate, interrotte; ritorni alle baracche dopo la felicità di averle abbandonate per i piroscafi che dovevano aspettarli ad Arcangelo, porto sul mare Bianco dove non arrivano bloccati dal gelo e dagli agguati degli u-boot. Finalmente, dopo su e giù, marce e tradotte, nel settembre del ’16, 1760 uomini si imbarcano per Glasgow. Dall’Inghilterra attraversano la Francia, arrivano nella Torino imbandierata subito comandati nelle fabbriche al lavoro per la guerra.
I trasbordi continuano fino all’inverno che trasforma il mare in un deserto di ghiaccio. Gli ultimi devono aspettare il disgelo. Si allunga l’esilio per 2600 soldati e 57 ufficiali ormai non prigionieri eppure costretti a pellegrinaggi surreali attraverso una Siberia sempre più pericolosa. Perché in Russia sta succedendo qualcosa. Nove milioni di morti, combattimenti ed epidemie, e la disperazione delle campagne incendia le città. Comincia la rivoluzione.
I trentini ne sono coinvolti: chi diffida delle guardie dalla stella rossa e chi osserva, con una meraviglia (che scivola nell’entusiasmo) la distruzione delle belle case padronali: servi della gleba arrivano nella notte con le torce della rabbia. Bruciano e portano via. Un po’ di trentini si riconoscono nelle loro bandiere. Qualcuno infila la divisa della rivoluzione. E c’è chi fa una specie di carriera: Giorgio Bugna, ortolano e giardiniere, accompagna un delegato del popolo a Pietrogrado, settimo congresso del Partito comunista. A due passi dalla tribuna ascolta Lenin: parla “con gesti di misura”.
Vladivostok diventa la fata morgana dove aspettare le navi del ritorno. Deposto lo zar, paese nel caos. Russi bianchi e bolscevichi combattono per il controllo della transiberiana. E i superstiti dell’impero di Vienna non sanno come raggiungere l’ultima speranza.
Ecco la sorpresa: entra in scena un Brancaleone dall’identità indefinita. Nome, cognome e accento di Benevento: ragionier Angelo Andrea Compatangelo in Russia per commerci anche se il mistero del come sia finito lì resta l’ombra sulla quale nessuno riesce a soffiare. Appena l’Austria entra in guerra, Compatangelo lascia l’Italia per sistemarsi a Samara, città sul Volga, osservatorio strategico degli umori che risalgono e scendono il grande fiume. E commerci e affari, ma anche teatri con attorno le terme dove Tolstoj va a fare “i bagni di zolfo” e si lascia incantare dalla setta Malachon che sdegna le cerimonie della chiesa greco ortodossa. Nelle colline dove riempie “le amate carte” lo scrittore immagina un futuro spirituale, non importa se sta pensando ad Anna Karenina. L’eclettismo del ragioniere trasmette all’Avanti! diretto da Mussolini rapporti sul declino dello zar. Scoppia la guerra e chiude bottega. Taglia anche con l’Avanti! che ha licenziato il Mussolini neutrale trasformato in feroce interventista.
Forse è il segno che può far capire qualcosa sull’identità di Compatangelo. Il quale con slancio patriottico parte alla ricerca dei trentini ormai italiani dispersi in mille posti irraggiungibili dalla Commissione Militare di Roma. Assume due infermiere russe; viaggio-raccolta per raggiungere Vladivostok. Si autopromuove capitano del Battaglione Savoia che inventa “per darsi autorità”. Chissà dove trova soldi e chi gli passa la divisa. Discute la libera circolazione dei prigionieri con i gerarchi di ogni dipartimento. Estate 1918: requisisce un treno e si incammina verso Vladivostok.
Viaggio non facile per gli scontri tra russi bianchi e bandiere rosse, ma Compatangelo si accoda ai 40 mila uomini della Legione Cecoslovacca anche loro al fronte con le mostrine Austria–Germania, anche loro ex prigionieri dei russi: li aiutano a disarmare “gli odiati tedeschi” e quando la rivoluzione travolge i comandi prendono la strada di Vladivostok per tornare a casa. Non è facile per bande e banditi in lotta per il controllo del territorio. I bolscevichi pretendono di sequestrare “l’equipaggiamento militare” che la legione di Praga non ha restituito ai generali dell’impero né ha consegnato ai russi ai quali si è arresa con l’onore del tenersi le armi. Il ragioniere–capitano dà una mano senza esporre al fuoco i suoi irredenti. Lungo la ferrovia cambia locomotiva, aggiusta binari. Si ferma a Krasnojarsk, città dove gli zar confinavano le teste pericolose.
Più tardi Stalin allargherà i suoi gulag. Contadini, operai e militari hanno preso il comando della regione con poche idee e nessuna esperienza. E Compatangelo offre di coordinare il cambiamento in equilibrio tra bolscevichi e socialisti. Quasi un colpo di Stato. Dittatore improvvisato: governa, decide, stringe alleanze, dialoga al telegrafo con Vladivosok dove li aspetta la Missione Militare Italiana che ha abbandonato Pietrogrado con Lenin al potere. Intanto l’Europa decide di dare una mano ai Russi Bianchi. E l’Italia si accoda attentissima alle spese e confidando sugli irredentisti vagabondi già lì mentre rinforzi modesti sono in viaggio da Napoli e Massaua verso Tientsin, porto della Manciuria con bandiera italiana per la concessione commerciale conquistata da Roma nel 1901 dopo aver partecipato alla repressione della Rivolta dei Boxer.
Tanto per non sfigurare, l’Italia aveva mandato 100 uomini; la vittoria di francesi, inglesi e tedeschi le regala lo spazio di Tientsin. Dove arrivano i reduci sfiniti dalle avventure. Lo considerano un anticipo della patria promessa. E dopo 6 mesi di viaggio, Compatangelo lascia il comando del battaglione fantasma mai contemplato nei registri dello Stato maggiore. Si ritira in un albergo di lusso “per il meritato risposo”.
Un mese dopo sparisce: nessuno spiega dove. Intanto gli irredenti vengono convinti a combattere l’ultima battaglia decisa a Parigi dalle potenze inquiete per una rivoluzione che potrebbe minacciare l’armonia dei loro poteri. Trentini che tornano in Siberia con divise giapponesi, cinesi o mezze italiane ricucite in qualche modo: “Bande nere” dal colore delle mostrine di truppe speciali. Qualche scontro ma le cancellerie lontane decidono che la Russia Bianca non c’è più. Ecco l’ ordine atteso: rompete le righe.
Primi a partire cento trentini malandati: fanno il giro del mondo per respirare fra le loro montagne. Attraversano il Pacifico, sbarcano a San Francisco, in treno a New York dove li aspetta il piroscafo Giuseppe Verdi. Finalmente a Genova. Un po’ alla volta si imbarcano tutti. Gli americani li accolgono coi coriandoli delle parate; gli italiani dell’emigrazione orgogliosi dei loro eroi. Diario di Mano Becanélla di Casteltesino. Invitato dalla folla in un “gran caffè di San Francisco”, posa il berretto sul tavolo e mangia il primo gelato della sua vita. Racconta e racconta e gli emigranti ascoltano. Alla fine riafferra il cappello e lo scopre pieno di dollari. Vuol sapere di chi sono.
Gli americani non capiscono il suo creolo trentino–italiano e quel cappello a mezz’aria scioglie la generosità. Piovono altri biglietti verdi che Becanélla accetta fingendosi “commosso e un po’ tonto”. Ripete la “ distrazione” a New York dove arriva non su carri “da bestie” come aveva immaginato: treno speciale, vagoni letto e ristorante. Con l’aria del nababbo raggiunge la famiglia profuga a Pianello Valditone. E cominciano i ricordi.
Diversa la fortuna di Umberto Ticcò, ultimo trentino a tornare a casa: 5 maggio 1920. Il viaggio che da Napoli lo porta al nord cancella il tepore dei vagoni americani. Accoglienza che raggela. Sbarcati quasi di nascosto nell’Italia preoccupata dalle settimane rosse, il treno viene bloccato tra Massa e Carrara.
Gli scioperanti lo scambiano per un convoglio militare che ha l’ordine di spegnere la loro protesta. No, tranquillizzano i trentini ormai stanchi. E Umberto scende e annacqua il sospetto. Poi l’arrivo nella sua Roncegno distrutta. Affacciato sulla Valsugana che da Bassano porta a Trento, il paese si è trovato sulla linea di fuoco e di conquista che inchiodava austriaci e italiani nell’immobile contrapposizione di fortini e trincee. Da una parte e dall’altra popolazioni deportate in Austria o nell’Italia mediterranea. Vienna diffidava dei tirolesi di lingua italiana, Roma degli austriaci che mai avevano rinnegato l’imperatore. In rovina anche la macelleria di Ticcò, ma non ne è addolorato: il macellaio non lo vuol più fare. Non sopporta l’odore del sangue. I massacri della Galizia gli hanno cambiato la vita. Turbamenti raccontati da Remo Caramaschi nel romanzo Una piccola luce di ondulati orizzonti: uscirà a settembre.
Umberto non ce la fa a riprendere il tempo perduto. Gli anni da soldato quasi di ventura hanno cancellato il vecchio ragazzo donne–lavoro e vino. E gli amici ai quali ripete le “incredibili esperienze” sbalordiscono per le conquiste amorose e l’eroismo di un cacciatore delle Alpi ritrovato con le piume del bersagliere. Realtà o invenzione? Sospetto che lo perseguita fino all’ultimo respiro. Anche il Podestà lo diffida per le “vanaglorie” e quel suo criticare Mussolini, ormai Duce intoccabile. Dove sei davvero stato? ripete la moglie confusa dalla tortuosità di una geografia impossibile da seguire. In Russia,in Cina, nell’America dei grandi palazzi? La diffidenza lo accompagna nella tomba. La guerra non può essere andata così.

Maurizio Chierici, Il Fatto Quotidiano 28/6/2014