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 2014  giugno 24 Martedì calendario

SONNAMBULI DI IERI E DI OGGI – [EDITORIALE]


[note alla fine]

1. OGNI STORIA COMINCIA DALLA FINE. NESSUNA FINISCE mai, perché sempre siamo pronti a riscriverla. E sempre diversamente, a seconda del punto di vista, del contesto, dei gusti, delle ossessioni di ciascuno. Nulla di più vano di provare a dettarne la versione ultima, definitiva. Il presente rimodula continuamente il passato. Almeno quanto le nostre utopie, che poggiano ciò che dovrà essere sulla critica di ciò che fu. I «puri fatti», gli eventi «così come sono effettivamente accaduti», sono prodotti e riprodotti da quella fabbrica a ciclo continuo che è la storiografia. O la propaganda vestita da scienza. Come stabilì E. H. Carr: «Lo storico migliore è quello dotato del miglior pregiudizio – non l’inesistente storico sema pregiudizi» [1].
La storia resta materia viva, attualissimo strumento di potere. Per la propria idea di storia si combatte come per il proprio territorio. Talché la vigente dottrina strategica americana esalta la competizione per la narrative: i conflitti non si vincono sul campo, ma nella sfera immateriale della narrazione. Egemone è chi impone la propria versione dei fatti. In attesa che altri la sovvertano. La fine della storia può attendere.
Ripensare oggi la prima guerra mondiale, catastrofe originaria della nostra epoca, è quindi operazione eminentemente strategica. «Gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei», conclude lo storico australiano Christopher Clark nel suo Sonnambuli, originale perlustrazione dei meandri che sfociarono nel colpo di pistola di Sarajevo e nel nient’affatto ineluttabile suicidio dell’Europa. Non per determinare chi fosse il colpevole di quei venti milioni di morti, ma per cercare di capire come ci si arrivò [2].
L’attualità della Grande guerra percorre anche le pagine di questo volume. Chi ci segue sa quanto rilevante sia nelle analisi geopolitiche il peso del passato che non passa. Ciò vale in modo speciale per l’intreccio di conflitti che infransero il secolo di relativa pace europea tra il congresso di Vienna (1814-15) e i cannoni d’agosto di cent’anni dopo. A inaugurare il secolo più sanguinoso nella vicenda umana. Perché la pace di Versailles (1919) non fu che la continuazione della guerra con altri mezzi, fino al secondo, più terribile massacro del 1939-45. E contro l’opinione prevalente nei decenni della lunga guerra fredda (1946-91), quel fuoco ha continuato a covare sotto l’illusoria glaciazione bipolare. Per riaccendersi, in forme bizzarre e cangianti, nel presente disordine della presunta globalizzazione, che molto deve al modo in cui l’apparente ordine del 1914 collasso come una supernova, disseminando la sua materia incandescente nel firmamento geopolitico [3]. Dove tuttora circola.
Prima di dipanare alcuni dei fili che ci riportano alla Grande guerra, per vagliarne la consistenza e la pregnanza nella geopolitica dell’oggi e forse del domani, un avvertimento a noi stessi. L’eccesso di storia che correntemente compensa il declino delle ideologie in bianco e nero dominanti nel pianeta bipartito tra Est e Ovest rischia di produrre l’ideologia di se stesso. In tre varianti, rispettivamente fondate sull’analogia, sul determinismo, sul moralismo.
Quanto alla prima. Ad ascoltare gli attori geopolitici in auge che amano spiegare ragioni proprie e torti altrui con riferimenti al passato – valga per tutti John Kerry che accusa Vladimir Putin di comportarsi come fossimo «nel XIX secolo, invadendo un altro paese in base a un pretesto del tutto inventato» [4], quasi questo fosse uno sport ottocentesco cui gli americani o altri non si sono mai dedicati – si potrebbe arguire che la storia tenda a ripetersi. Sicché l’analista dovrà occuparsi di stabilire volta per volta quale analogia sia più pertinente nel ciclo della storia universale. Come Marco Aurelio nell’incombente inclinatio imperii ripeteva a se stesso che «prima tutto è avvenuto tale quale avviene ora (...) e avverrà anche in futuro» [5], potremmo cullarci nell’irresponsabilità inscritta nella circolarità degli eventi. O anche solo credere, seguendo un Mark Twain apocrifo, che se la storia non si ripete tuttavia fa spesso rima. A noi di scernere nel rimario dato il verso cui accordare il presente. L’effetto sedativo di tale postura ne assicura il fascino.
Il determinismo deriva dall’interpretazione meccanica delle cause storiche. Si allestiscono catene logiche allegramente insensibili al contesto spaziotemporale degli eventi. Si procede per sillogismi avulsi dalla cronologia e dalla geografia. Espulso l’ambiente specifico, resta il genotipo nazionale. Eccoci ai confini del razzismo, se non oltre. Pensiamo al collegamento fra l’articolo 231 del trattato di Versailles, che punisce la Germania quale colpevole della guerra – o alla sua filiazione post-seconda guerra mondiale, con il decreto interalleato n. 46 del 25 febbraio 1947 che abolisce la Prussia – e la lettura del nazismo in chiave germanofoba, come anello estremo della catena che da Federico II inevitabilmente genera Hitler, passando per Wagner e Nietzsche.
Infine, il moralismo. Approdo obbligato di analogismi e determinismi. Qui lo scopo è attribuire la colpa o deliberare l’innocenza. Bene contro Male. La storiografia come romanzo giallo. Dove il colpevole sarà il maggiordomo di turno. Nel caso di specie, Gavrilo Princip, il fanatico ragazzetto che il 28 giugno 1914 uccide a Sarajevo con due colpi di Browning semiautomatica I’erede al trono austro-ungarico e sua moglie. Un centesimo di secondo a proiettile basterà a spiegare i cent’anni successivi?
Ad accomunare le tre aberrazioni, la tentazione di credere che studiare la storia sia inutile. Meglio: che si possa scriverla senza studiarla. Perché la sua verità non è intrinseca, è funzione della sua utilità geopolitica. Eccoci riproiettati sul mondo di oggi e sulle sue origini di un secolo fa.

2. Nella primavera del 1920, a un ufficiale italiano che gli confidava l’intenzione di lasciare le armi perché disilluso dalla «vittoria mutilata» ed esasperato dalla propaganda pacifista sulla prima guerra mondiale come «l’ultima guerra», Vittorio Emanuele III oppose: «Chiacchiere. Dopo che quattro imperi si sono sfasciati, prima di una solida e duratura ricostruzione nasceranno certo altri conflitti» [6]. Il re avrà avuto ragione. Non abbiamo ancora finito di digerire il principale esito della Grande guerra: la simultanea scomparsa degli imperi ottomano, austro-ungarico, tedesco e russo. Di poco preceduta dal crollo dell’edificio dinastico cinese, correlato alla fatua espansione giapponese in Asia. Su queste radici è piantato l’albero della superpotenza titolare del Novecento, gli Stati Uniti d’America, subentrati ai cugini britannici, pseudo-vincitori, con francesi e italiani, della mischia scoppiata a Sarajevo.
A ben guardare, molte delle partite geopolitiche in corso possono configurarsi come guerre di successione – fredde, calde o tiepide – per l’egemonia nei territori evacuati dai quattro imperi europei o contesi nell’Asia-Pacifico dal triangolo scaleno Stati Uniti-Cina-Giappone. Due conflitti mondiali e una guerra fredda non hanno sciolto quei nodi. Nel 1918 come nel 1945 e nel 1991, la fine di una guerra venne spacciata come fine di tutte le guerre. Ma la formula magica per il governo dei grandi spazi attende il suo inventore.
Sarà per questa ricorrente disillusione, sarà per l’inclinazione nostalgica che percorre ogni età di crisi: mai come oggi i quattro imperi, già certificati defunti, sono tornati di moda.
La Turchia del «sultano» Erdoğan vibra di neo-ottomania. Opportunamente miscelata alle vene panturanica e panislamica, l’ideologia imperial-califfale autorizza il leader turco a battezzare casa sua scelti spazi incastonati fra Adriatico e Turkestan orientale (Xinjiang). Dopo che Atatürk aveva inventato lo Stato nazionale turco sulle macerie del «grande malato d’Europa» e sull’epopea di Gallipoli (1915) – quando l’allora tenente Mustafa Kemal ordinò alle sue truppe non di combattere, ma di morire per la patria – oggi l’islamista Erdoğan si ostenta guardiano della Sublime Porta anche nelle condoglianze agli armeni vittime delle deportazioni e dei massacri compiuti cent’anni fa dalle truppe del sultano ai danni di centinaia di migliaia di loro antenati: «Gli incidenti (sic) della prima guerra mondiale sono nostro comune dolore» [7]. I discutibili esiti della sovraesposizione neo-ottomana, specialmente in campo arabo, non sembrano aver intaccato l’aura di Erdoğan in patria, dove il premier serra le viti di un sistema personalistico e autocentrato.
La Russia dello «zar» Putin rivendica il passato imperiale; dopo lo sprezzante oblio sovietico per l’epopea del 1914-18 – prolungata in una guerra civile internazionale frequentata dalle potenze occidentali in chiave antibolscevica – il 1 ° agosto 2013 il Cremlino ne ha celebrato per la prima volta l’anniversario e ha promosso finalmente l’erezione di un monumento ai «quindici milioni di combattenti per la difesa della patria». Quella Russia imperiale, guidata dal «saggio e grande» Nicola II, avrebbe certamente vinto, se i comunisti non avessero rovesciato lo zar [8]. Se Putin rifiuta il rango di sconfitto nella guerra fredda, cui Obama vorrebbe inchiodarlo, è perché si richiama all’impero dei Romanov, non al regime degli usurpatori bolscevichi, di cui gli ultranazionalisti al Cremlino e dintorni amano semmai marcare, senza simpatia, certe matrici ebraiche. L’Unione Sovietica è per Putin quel che il fascismo fu per Croce: una invasione degli hyksos. Parentesi da cancellare.
Quanto all’Austria-Ungheria, la sua leggenda è inscritta nella sua scomparsa. Nella trasfigurazione da baluardo della reazione veterocontinentale in progressivo modello di convivenza plurietnica.
Tutta la Mitteleuropa oggi ne parla. Italia ex asburgica compresa. Non c’era bisogno di riscoprire Joseph Roth, con la sua Marcia di Radetzky, per resuscitare il mito della felix Austria, multiculturale, serena, pacifica. Quando trascina Kakania nel baratro della Grande guerra, Francesco Giuseppe regna su sessanta milioni di sudditi riuniti in due Stati, una decina di «nazioni storiche» e una ventina di gruppi etnici minori. Ciò che poi permetterà al drammaturgo Ödön von Horváth di qualificarsi così: «Sono nato a Fiume, cresciuto a Belgrado, Budapest, Pressburg (Bratislava, n.d.r.), Vienna e Monaco, e ho un passaporto ungherese; ma non ho patria» [9]. Curioso come la memoria di quel grandioso collage di popoli e culture venga spesso agitata non per riunire l’impero, ma per ritagliare qualche coriandolo già asburgico da Stati nazionali in deficit di legittimazione. Quali il nostro.
Infine, la Germania. A due secoli dalla dissoluzione di ciò che restava del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, uno dal crollo del Secondo Impero guglielmino e a settant’anni dalla liquidazione del Terzo, lo storico irlandese Brendan Simms ha centrato la sua reinterpretazione della storia europea dalla caduta di Costantinopoli al presente come lotta per l’egemonia nello spazio tedesco e disputa per l’eredità dell’impero carolingio sulla tesi dell’immediatezza del passato» [10].
Siamo nella terra del «passato che non passa» per eccellenza, come conferma l’ennesima ondata di germanofobia che sta attraversando l’Europa. La crisi dell’euro, moneta inventata da francesi e italiani per impedire alla Germania riunificata di dominare il continente, neanche fossimo tornati al 1913 – l’incubo di Mitterrand, e non solo è interpretata a Berlino alla luce del 1923, l’anno dell’iperinflazione avviata con lo scoppio della guerra e incentivata dal trattato di Versailles, quando i prezzi raddoppiavano ogni quattro giorni. La paura dell’euro di carta straccia – che a noi mediterranei, asserite vittime della deflazione da austerità teutonica, appare paradossale – è figlia di quella memoria tramandata di bisnonno in bisnipote, se è vero che ancora oggi i tedeschi temono l’inflazione più del cancro [11]. E la rinuncia al marco, concessione alle germanofobie europee, è descritta da alcuni intellettuali tedeschi come «seconda Versailles»: pedaggio ingiustamente pagato per sanare la riunificazione del 1990, percepita da alcuni vicini europei come prodromo del Quarto Reich. Tale era, e in parte resta, la visione dei teorici del «carattere nazionale tedesco», ossia della vocazione aggressiva di un popolo postulato uguale a se stesso da Arminio ad Angela Merkel. Nient’altro che un’eterna colpa collettiva. Di cui la Grande guerra è testimonianza in quanto aggressione austro-tedesca alla pace europea.
La tesi della colpa germanica nella prima guerra mondiale, sviluppata all’estremo dallo storico bavarese Fritz Fischer nel troppo noto Assalto al potere mondiale (1961) [12], quando la Bundesrepublik era semiprotettorato americano nel cuore d’Europa, irradia di sé storiografia e vulgata anche nella Germania del dopo-Muro. La demonizzazione dell’impero guglielmino in quanto progenitore delle distopie hitleriane, che fino all’Ottantanove forniva ossigeno ideologico alla spartizione della Germania quale espiazione del suo innato imperialismo, si scontra oggi non solo con l’insofferenza di un’opinione pubblica stufa di essere identificata con il Male assoluto, ma anche con il revisionismo storiografico. Il corrispettivo tedesco dei Sonnambuli di Clark è La Grande guerra di Herfried Münkler [13]. La prima imponente (928 pagine) monografia dedicata alla catastrofe del 1914-18 dopo Fischer. Münkler respinge il determinismo antitedesco e illumina le origini del conflitto di mille luci, offrendone un’interpretazione multicausale – se non casuale. Il Kaiser è uno dei corresponsabili della Grande guerra, non il butler di una crime fiction anglo. Da tanta acribia storiografica lo storico tedesco trae una prescrizione di stretta attualità: emancipandosi dalle catene della colpa storica, la Germania può tornare a farsi valere nel mondo – ovviamente per le buone cause, o asserite tali.

3. La prima guerra mondiale sembra oggi suscitare meno interesse fra i vincitori che fra gli sconfitti. Specie per i soli veri trionfatori: gli Stati Uniti d’America. Visto da Washington quel conflitto non è evento fondativo. Salvo che nell’esiguo establishment militar-politico-accademico deputato a distillare le formule utili a restare il Numero Uno della gerarchia globale, rango di cui la vittoriosa spedizione in Europa del 1917-18 fu premessa. Dove ci si accapiglia tuttora tra idealisti, seguaci di Woodrow Wilson, il presidente della guerra e della pace di Versailles, e realisti, molti dei quali venerano in Theodore Roosevelt, che di poco lo precedette alla Casa Bianca, il loro patriarca. A Wilson si deve la celeberrima formula dell’autodeterminazione delle nazioni, dinamite ideologica cui volentieri e spesso si attribuiscono, alquanto abusivamente, fibrillazioni e terremoti geopolitici nell’intero orbe terracqueo. Per meglio cogliere alcuni effetti presunti del wilsonismo, conviene rientrare alla scala continentale. Quella dei vincitori europei, dei quali alcuni rimpiangono l’aver combattuto una partita che li avrebbe comunque consegnati al declino.
Per la Francia, che ne esce dissanguata, monogramma della Grande guerra è Verdun. Da quella strage deriva l’obbligo alla «coppia franco-tedesca», pensata da de Gaulle come additivo germanico nel motore dell’Esagono che avrebbe riportato Parigi al centro del mondo, riadattata dai suoi tardi epigoni a compartecipazione minoritaria alla primazia continentale della Germania. Poco manca che i critici di questo strano accoppiamento vengano accusati di tradire gli eroi della Marna.
Per la Gran Bretagna, che scivolando nella guerra continentale accelera il passaggio di testimone quale potenza mondiale egemone agli Stati Uniti, la questione è se quel sacrificio fosse evitabile – come sostiene lo storico Niall Ferguson, che bolla l’opzione bellica di Londra quale «massimo errore della storia moderna» [14] – o se invece, come vuole il mainstream soprattutto conservatore, fosse obbligo respingere l’aggressione della Germania prima che il Kaiser assoggettasse l’intero continente, strangolando l’arcipelago britannico.
E noi? L’uso pubblico del ’15-’18 – perché la prima guerra mondiale tendiamo a ridurla al triennio del nostro intervento – è piuttosto limitato. Sganciato da ogni retorica nazionale. Al punto di rimuovere che il 4 novembre 1918 è la Festa della Vittoria, non la fine dell’inutile strage». Non è solo la vaccinazione contro i vaneggiamenti ipernazionalisti del fascismo a determinare tanto oblio. È piuttosto la caduta di senso dell’Italia in quanto Stato nazionale: a quale logica potremmo ascrivere la celebrazione di Vittorio Veneto come sigillo della quarta guerra d’indipendenza in un paese che non crede più in quasi nulla salvo forse il papa argentino e al cui ipotetico timone si succedono capi diversi in tutto fuorché nell’invincibile diffidenza verso il «popolo sovrano»? Tanto più se la Grande guerra i nostri ascendenti la combatterono per redimere genti che oggi, a quanto pare, ambirebbero solo a rientrare nell’ideale famiglia asburgica, modello ineguagliato di buon governo?
A che pro cullarsi nel mito di Vittorio Veneto se cent’anni dopo il Veneto certifica le sue velleità separatiste in un referendum non così virtuale che solo le cieche leadership nostrane possono declassare a folklore? E se gli interventisti intendevano recuperare Trento e Trieste all’Italia – arditamente assumendo che ne avessero mai fatto parte in qualche remota veste – che cosa dobbiamo pensare di un Trentino subordinato al carro sudtirolese, a sua volta legato a Roma da considerazioni pecuniarie, certo non identitarie, o dell’indipendentismo triestino, che per l’ex porto asburgico traccia una direttrice di sviluppo indirizzata verso gli antichi approdi mitteleuropei e sprezza il vincolo italiano?
Restano le pedagogiche scampagnate traverso i «luoghi della memoria». In chiave comunitaria, locale, mai nazionale. Ad alimentare una pubblicistica «a chilometro zero». Come osserva Mario Isnenghi, «questa dimensione tipicamente territoriale si alimenta di tutto un clima di agnosticismo, indifferenza o ostilità a dimensioni più vaste – la Nazione, lo Stato» [15]. La percepita assurdità dell’Italia attuale rimbalza sulla Grande guerra, resa così altrettanto assurda. E la voce poetica di Andrea Zanzotto, per cui «quella tragedia è rimasta nella terra e nella gente», suona oggi auspicio, non constatazione.
Torniamo alla profezia di Vittorio Emanuele III: certo il re aveva ragione di vedere nella pace di Versailles nient’altro che una tregua in vista d’inevitabili conflitti; forse però non intuiva quanto di provvisorio e d’incompleto vi fosse nella subitanea cancellazione di quattro imperi dal planisfero politico. Quattro imperi, o quattro dinastie? Con il vantaggio dell’oggi, osserviamo che nessuno di quegli Stati imperiali è inscrivibile nel solo passato, ridotto a oggetto inanimato da affidare alle cure di storici oleografi. Se è morto, giace insepolto e il suo fantasma si presta a nuovi impieghi. Il corpo-Stato non è più, ma il mito resiste, rimodellato come spirito immortale. Questi avatar continuano a irradiare della loro luce d’oltretomba i rispettivi ambiti d’influenza. È il moderno destino di imperi antichissimi – si pensi all’uso delle glorie faraoniche che nell’Egitto del generale al-Sisi o al parallelo fra Roma e America caro ai neocon – e di altri più recenti, la cui memoria è recuperata per giustificare geopolitiche in corso. Attraverso riletture nostalgiche, come nei casi russo, ottomano e financo asburgico, o deprecative, quando i germanofobi evocano lo spettro del Reich.

4. Il principale lascito geopolitico della Grande guerra è la dissoluzione dell’ordine europeo. E poiché nel 1914 dire Europa era dire mondo, vista la formidabile estensione dei domini afferenti alle madrepatrie europee, il sisma centrato sui Balcani toccò le placche tettoniche d’ogni oceano e continente. Scosse Australia e Stati Uniti, Cina e Brasile, Russia e Giappone, indusse financo Cuba, Siam e Honduras a dichiarare guerra ad Austria e Germania (San Marino si fermò agli Asburgo). I negoziatori di Versailles si troveranno così a disputare non solo intorno alle frontiere veterocontinentali ma anche su terre artiche e antartiche, colonie africane e asiatiche, spazi atlantici e pacifici, per la fortuna di cartografi intraprendenti, spesso improvvisati, mai neutrali. Tutto, o quasi, appendice d’Europa.
Ma che cos’era l’Europa alla vigilia di Sarajevo?
Sul piano geopolitico, il prodotto dell’equilibrio fra le potenze sancito dal Congresso di Vienna e affidato alla manutenzione dei Metternich, dei Castlereagh e dei loro eredi. Fondato sul principio di legittimità. Un’Europa dinastica, la patria grande formata dall’arcipelago delle monarchie imperiali e dall’altrettanto imperiale repubblica francese. Come scriveva Metternich, in francese, a Wellington: «Da molto tempo ormai l’Europa ha acquisito per me la qualità di patria» [16]. Quel sistema era una famiglia allargata, un festival di re e principi cugini che si chiamavano per soprannome, finché l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Austria non trovò i sonnambuli Kaiser Willy e zar Nicky su trincee opposte.
Sul piano geoeconomico, pax britannica. L’impero che aveva toccato l’apogeo sotto lo scettro di Vittoria (1837-1901) era il centro industriale, commerciale, finanziario e tecnologico del pianeta. Garante della prima e forse unica globalizzazione, che ispirò a Marx ed Engels l’inno alla «reciproca interdipendenza universale fra le nazioni» [17].
Quell’equilibrio, frutto della sconfitta della Grande Nazione, presupponeva il contenimento dei nazionalismi, la gestione delle rivendicazioni etno-linguistiche negli involucri imperiali, la compressione dei radicalismi democratici, dei movimenti operai e delle schegge anarchizzanti entro gabbie autoritarie, nello spirito prima che nella forma. Tutto saltò in aria nell’agosto 1914. Da allora, nessun altro ordine paneuropeo – tantomeno mondiale è stabilmente subentrato al legittimismo dei sovrani. Non certo quello di Versailles. Nemmeno lo schema della guerra fredda, che bisecava il continente per affidarlo alla tutela di due contrapposte potenze esterne/interne: da cuore degli imperi mondiali, l’Europa scadeva a doppia appendice di due mondi imperiali. E occorre un atto di fede per assimilare a una qualsiasi idea ordinativa la carta geopolitica dell’Europa odierna: pur largamente vestita dei colori euroatlantici, non stentiamo a cogliervi nuove e antiche linee di faglia, alcune risalenti alla Grande guerra, altre assai anteriori.
Non solo disordine. A scrutare fra le maglie intrecciate dei territori europei, possiamo leggere «la cifra nel tappeto». È la balcanizzazione, mossa dal principio «perché devo essere minoranza nel tuo Stato se tu puoi esserlo nel mio?». Versione aggiornata della Kleinstaaterei da Primo Reich, compulsiva resezione degli spazi sovrani o para-sovrani. Di qui contese interminabili, nutrite dall’ideologia dei «diritti storici» su questa o quella marca, fungibile dottrina agilmente maneggiata da gruppi criminali e/o leader ipernazionalisti dall’ego spesso inversamente proporzionale alla grandezza della terra d’origine. Come vent’anni fa nelle guerre di successione jugoslava. E come minaccia di accadere in Ucraina, a un grado assai maggiore, se non riusciamo a frenarne in extremis la deriva.
Noi italiani siamo specialmente esposti ai venti della destabilizzazione permanente per causa della fragilità dello Stato e per la prossimità alla regione balcanica. La balcanizzazione non è più specialità esclusiva della penisola eponima. Il suo spazio è in rapida dilatazione a partire dal quasi contemporaneo crollo dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. Dal confine italo-sloveno a quello ucraino-russo, da Trieste a Kharkiv, dal Mare Adriatico al Mar Nero, cent’anni dopo il crollo degli imperi asburgico, ottomano e zarista non c’è quasi frontiera che non sia contestata o contesa. Partendo dalla disputa fra Slovenia e Croazia sul Golfo di Pirano, che investe direttamente i nostri interessi, si può percorrere per un migliaio di chilometri in direzione est una via balcanica che fende senza soluzione di continuità territori oggetto di contenziosi sordi o vivissimi. A cominciare da quelli di fatto aperti da Budapest con Slovacchia, Romania, Serbia e Ucraina in odio al trattato del Trianon (1920), di lì passando in Moldova, tanto cara agli apologeti della Grande Romania quanto a sua volta deprivata da Mosca e dalle sue mafie di riferimento della fascia transnistriana, sfociando nell’Ucraina contesa, già amputata della Crimea. Sempre muovendo da Trieste è istruttivo percorrere la variante meridionale della via balcanica, lungo la dorsale che ci collega a Sarajevo, capitale di uno Stato inesistente, di qui dirigendo verso i contenziosi serbo-albanesi, albano-greci, greco-turchi, curdo-turchi e turco-siriani, fino alla partita arabo-israeliana e oltre, verso il Nordafrica o il Medio Oriente. Lì dove la caduta dell’impero ottomano ha prodotto cent’anni di conflitti permanenti, di cui quello siriano è oggi il più crudele.
Non è per accidente se la nostra frontiera del 2014 è contermine ai Grandi Balcani, teatro originario della guerra scatenata nel 1914. È anzi occasione per ricordare a noi stessi la quota di responsabilità che ci spetta nello scoppio della Grande guerra, con l’aggressione alla Libia ottomana (1911). Evento rimosso dalla pedagogia pubblica, come confermato fra l’altro dal modo in cui i sonnambuli del governo Berlusconi si dedicarono a bombardare quel paese, nel centenario del nostro sbarco a Tripoli «bel suol d’amore». Sarebbe utile distribuire nelle nostre scuole almeno il quinto capitolo dei Sonnambuli di Clark, dove si spiega come l’attacco giolittiano alla Libia abbia «messo in moto una catena di assalti opportunistici sui territori ottomani nei Balcani», così «spazzando via il sistema degli equilibri geopolitici che aveva permesso di contenere i conflitti locali» [18]. Da Tripoli a Sarajevo la via è diretta. E l’hanno costruita gli italiani. Cose che succedono, quando si toccano architetture tanto ampie, ramificate ed eterogenee quali i grandi imperi, illudendosi di poterne controllare il collasso.

5. Analogisti, deterministi e moralisti, alla ricerca del Big Bang e del Colpevole, vorranno indicare nel dilettantismo di Wilson, nei non troppo sacri egoismi francese e britannico, nei velleitarismi germanici o nelle sventatezze delle cicale mediterranee i peccati originali cui attribuire il declino del nostro continente. Nessun leader europeo, né tantomeno un qualsiasi eurocrate brussellese, vorrà ammetterlo, ma una nostalgia d’impero agiva alla fonte l’impulso comunitario e continua a muoverne la barocca macchina, ormai fine a se stessa. Se il problema sono i nazionalismi, macro e micro, tuttora impegnati a contendersi o a reclutare in un revival 2.0 i cadaveri degli imperi che si sono massacrati nella prima e nella seconda guerra mondiale, perché non reinventare un sistema imperiale? Stavolta unico. Un nuovo Sacro Romano Impero, ma di Nazione Europea. Se mai l’europeismo ha un’ideologia parageopolitica, questa è la neocarolingia, in versione super-allargata. L’ennesimo replay.
Difficile concepire qualcosa di meno probabile. Più arduo ancora trascurare gli effetti di tanto smisurata ambizione sulla pace europea. Valga di nuovo il richiamo all’Ucraina. Terra contesa, che qualche mente baltica immagina di assimilare all’insieme atlantico-neocarolingio, trascurando che nella memoria e nella prassi imperiale russa quella è madrepatria. Dove qualche stratega americano ha contribuito ad allestire una trappola destinata a riportare Putin alla sua presunta taglia regionale. Mentre l’imperialismo grande-russo, sconfitto a Jevromajdan, l’eleva a teatro della propria rinascita.
Mettere il dito nell’ingranaggio di quell’incerta frontiera, all’incrocio delle secolari influenze russa, turca, polacca e asburgica, produce conseguenze globali. Non solo per l’interdipendenza energetica, dunque securitaria, fra russi ed europei, via ciò che resta dell’Ucraina. Financo per la partita fra America e Cina, che dovrebbe decidere della titolarità del XXI secolo.
Probabilmente Obama, appoggiando i rivoluzionari di Kiev per ridimensionare Putin e impedire la saldatura di un asse russo-tedesco incompatibile con il mantenimento del primato americano in Europa, non aveva inserito nella sua matrice strategica la contromossa cinese del Cremlino. Perso il primo round ucraino, Putin ha chiamato Pechino. Con una svolta di 180 gradi, il leader russo ha proposto al collega cinese Xi Jinping un accordo «risorse contro investimenti» destinato a neutralizzare qualsiasi sanzione occidentale per la sua ingerenza in Ucraina, a ridisegnare la mappa energetica del mondo e a sviluppare la nuova via centroasiatica della seta volta a connettere la Cina all’Europa – ma in questo quadro non contro, bensì con la partecipazione della Russia. Dopo anni di trattative senza sbocco con la controparte cinese, in un clima di reciproca diffidenza, la crisi ucraina ha convinto Putin a vendere il suo gas a prezzi graditi e a condizioni assai favorevoli all’Impero del Centro, storico rivale della Russia sotto ogni forma e veste. Se sviluppato fino in fondo, specie sotto il profilo degli investimenti cinesi nelle infrastrutture russe, questo accordo passerebbe alla storia come il rovesciamento dell’altrettanto clamorosa apertura di Nixon a Mao, in chiave antisovietica. L’intesa russo-cinese darebbe il colpo di grazia alle illusioni americane di applicare a Pechino lo schema del contenimento inflitto all’Urss, pudicamente ribattezzato pivot to Asia. E forse risveglierebbe Washington dalla rassicurante rappresentazione della Russia potenza regionale, marchio difficilmente attribuibile a chi confina contemporaneamente con Cina, Stati Uniti ed euro-Nato. È Obama, non Putin e tanto meno Xi Jinping, a leggere la crisi ucraina in chiave regionale, anzi provinciale. Rischiando di trasformare la vittoria tattica di Jevromajdan in sconfitta strategica.
Un vieto cliché veteroeuropeo attribuisce agli americani scarso senso della storia, ai russi passatismo in eccesso. La dilatazione eurasiatica della partita ucraina mostra il contrario. Torniamo, per l’ultima volta, alla prima guerra mondiale. Negli alambicchi degli strateghi del Pentagono si è recentemente miscelata l’ennesima analogia storica, stavolta depurata di ogni ambizione euristica perché apertamente strategica. In formula: America=Inghilterra edoardiana, Cina=Germania guglielmina. Con la seconda decisa a strappare alla prima l’egemonia globale, ingaggiando la corsa al riarmo. Allora fu la Grande guerra, oggi meglio non sapere. Morale: fermiamo la Cina prima che sia troppo tardi. Se non con l’Air Sea Battle suggerita dai falchi dell’Office of Net Assessment, almeno con il pivot to Asia. Peccato che il contenimento della Repubblica Popolare – lasciamo stare la follia di una guerra guerreggiata contro di essa – si fondi su almeno tre premesse intenibili: I’espansionismo cinese sui mari (Pechino è molto più interessata all’Asia centrale, porta girevole verso il mercato europeo, i tesori minerali siberiani e i fossili mediorientali); il coinvolgimento del Giappone come punta di lancia dello schieramento anticinese (dimenticando che la memoria delle nefandezze dell’imperialismo nipponico prevale in Asia sulla paura della Cina); l’esclusione della Russia, quasi fosse quantità trascurabile, non la pur declinante terza potenza mondiale, a ridosso di entrambi i contendenti.
Anche Putin parrebbe smentire i nostri snobismi. Sarà per la sua intrinsechezza al mondo germanico, ma nel caso cinese sembra aver applicato la lezione di Nietzsche: «Per ogni agire ci vuole oblio. (...) Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione» [19]. Eccolo dunque concedersi all’abbraccio cinese, negazione di tutta la geopolitica russa dalle origini a oggi, pur di rimediare alla provvisoria sconfitta sullo scacchiere ucraino. Conscio che la sbornia nazionalista e gli urrà per Sebastopoli non compenseranno a lungo i contraccolpi economici della sfida a distanza con gli americani alla frontiera euro-russa. Perché forse il passato non passa, ma il tempo sì.

1. E. H. CARR, What is History?, CPI Antony ROWE, Chippenham and Eastbourne 2001 (1ª ed. 1961). p. XIV.
2. Cfr. CH. CLARK, The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, London 2013, Penguin Books (1ª ed. 2012).
3. La metafora è tratta dall’introduzione di M. SILVESTRI al suo La decadenza dell’Europa occidentale (1890-1933), Milano 2010, Rizzoli (1ª ed. Einaudi 1977-1982), vol. I, p. VIII.
4. Cit. in W. DUNHAM, «Kerry Condemns Russia’s “Incredible Act of Aggression” in Ukraine», Reuters, 2/3/2014.
5. MARCO AURELIO, A se stesso, X, 27.
6. M. CARACCIOLO DI FEROLETO, Memorie di un Generale d’Armata. Mezzo secolo nel Regio Esercito, Padova 2006, Nova Charta, p. 141
7. C. LETSCH (e agenzie), «Turkish PM Offers Condolences over 1915 Armenian Massacre», The Guardian, 23/4/2014, www.theguardian.com/world/2014/apr/23/turkey-erdogan-condolences-armenian-massacre
8. CH. NEEF, «Stolen Triumph: Russia Revisits Pivotal Role in World War I», Spiegel Online, 13/1/2014, www.spiegel.de/international/world/russia-revisits-its-role-in-world-war-i-a-942500.html
9. Cit. in M. MAZOWER, Dark Continent. Europe’s Twentieth Century, New York 1998, Vintage Books, p.43.
10. B. SIMMS, Europe. The Struggle for Supremacy, 1453 to the Present, vedi in particolare p. VIII.
11. Cfr. A. JUNG, «Im Delirium der Milliarden», Der Spiegel, n. 6/2014, www.spiegel.de/spiegel/print/d124838598.html
12. F. FISCHER, Griff nach der Weltmacht. Die Kriegszielpolitik des kaiserlichen Deutschland 1914/1918, Düsseldorf 1961, Droste. La traduzione italiana, curata da Enzo Collotti, compare a Torino presso Einaudi nel 1965, con il titolo Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918.
13. H. MÜNKLER, Der Große Krieg. Die Welt 1914-1018, Berlin 2013, Rowohlt.
14. Cfr. M. KENNEDY, «Britain Entering First World War Was “Biggest Error in Modero History», The Guardian, 30/1/2014.
15. M. ISNENGHI, Il mito della Grande Guerra, Bologna 2014, il Mulino (1ª ed. 1970), p. 5.
16. Cit. in H. A. KISSINGER, A World Restored. Metternich, Castlereagh and the Problems of Peace, Boston-Cambridge 1957, Houghton Miffin Company – The Riverside Press, p. 321.
17. K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito comunista, Milano 1998, Silvio Berlusconi editore, p. 13.
18. CH. CLARK, op. cit., p. 242.
19. F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1996 (12ª ed.), Adelphi, p. 8.