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 2014  maggio 30 Venerdì calendario

BANCHE SOTTO STRESS


A Berlino hanno sempre trattato l’Italia come la Cenerentola d’Europa. E invece, sorpresa: a uscire ammaccati dal tagliando sugli istituti di credito del Vecchio Continente potrebbero essere proprio i tedeschi. Il verdetto dei test imposti dalla Banca centrale europea (Bce) - in corso proprio in queste settimane - sarà noto solo in autunno ma la Germania è già sull’orlo di una crisi di nervi.
A rimediare la prima figuraccia è stato infatti un colosso del calibro di Deutsche Bank, che il 18 maggio ha annunciato un aumento di capitale da 8 miliardi. Si tratta della terza iniezione di risorse fresche in pochi anni per il panzer del credito, che aveva dovuto rimpinguare il proprio patrimonio già nel 2010 (con 10,2 miliardi) e nel 2013 (con altri tre). E che ora, per rimettere in sesto i conti, dovrà attendere i quattrini in arrivo dal Golfo Persico, visto che l’emiro del Qatar gli porterà in dote 1,7 miliardi di euro, diventando azionista con una quota del 6 per cento (vedi articolo a pagina 104).
«Abbiamo bisogno di un cuscinetto di protezione», si è giustificato l’amministratore delegato di Deutsche Bank, Anshu Jain, riferendosi appunto agli esami della Bce, iniziati con la l’analisi della qualità dei beni patrimoniali delle 128 maggiori banche dell’Unione, in vista del passaggio all’istituto centrale presieduto da Mario Draghi delle attività di vigilanza sul sistema creditizio. Gli ispettori di Francoforte, accompagnati dai vigilantes delle banche centrali nazionali e da consulenti esterni, stanno passando ai raggi X i conti dei 128 istituti, per verificare che non ci siano nascoste magagne tali da mandarle a gambe all’aria. Poi verranno effettuati quelli che sono definiti “stress test”, ovvero simulazioni di situazioni estreme a livello macro-economico. Chi non supera i test avrà da sei a nove mesi, a seconda dei casi, per aumentare il capitale o eventualmente fondersi con banche dalle spalle più larghe.
Nei compiti che alla fine andranno consegnati al professor Draghi, a dare i maggiori grattacapi sono le analisi sulle sofferenze, cioè i crediti difficili da riscuotere. Nel gergo anglo-finanziario si chiamano “non performing loans”, e appesantiscono il sistema bancario europeo con una zavorra di mille miliardi. È un virus con cui fanno i conti anche le banche italiane, che proprio per far fronte ai crediti non esigibili hanno chiuso i cordoni della borsa, lasciando migliaia di artigiani e piccole imprese ad annaspare. Per Unicredit parliamo di 18 miliardi di euro a fine 2013, mentre Intesa Sanpaolo conta prestiti a rischio per 13 miliardi e il Monte dei Paschi per quasi 9 miliardi. Non è un caso se il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, negli ultimi mesi ha messo i vari istituti sotto torchio come mai era accaduto in passato. È opinione diffusa che abbia voluto togliere la polvere da sotto i tappeti, per presentarsi a Francoforte senza temere sorprese. Ed evitare che, nel fuoco incrociato sul sistema Italia, le banche diano il pretesto per nuovi attacchi. Visco ha così imposto, o tentato di imporre, una svolta nella gestione di molti istituti, chiedendo il ricambio di manager che, più o meno contestualmente, sono diventati protagonisti delle cronache giudiziarie, da Mps alla Popolare di Milano, dalla Banca Marche fino alla Carige.
Resta il fatto che, mentre in questi anni l’Italia ha chiesto pesanti sacrifici agli azionisti privati delle banche per rimettere a posto i conti, altri Paesi che hanno fatto leva soprattutto sugli aiuti pubblici (vedi grafico a destra) rischiano di arrivare all’appuntamento con la vigilanza unica in condizioni ballerine. Nemmeno la locomotiva d’Europa, ad esempio, è immune alla crescita dei crediti dubbi. A dispetto di un’economia tonica, nel 2013 - dice il Fondo monetario internazionale - nel sistema bancario tedesco il loro ammontare ha superato i 200 miliardi, segnando uno 0,5 per cento in più rispetto all’anno prima. I calcoli del Fmi però non tengono conto delle Sparkasse, le casse di risparmio, su cui vigila la Consob tedesca (la Bafin). Questi istituti, da sempre terreno di conquista per le clientele politiche, dovrebbero avere in pancia sofferenze per altri 85 miliardi, ma non sono obbligati a comunicarli al mercato.
«Gli stress test questa volta pongono sfide ben maggiori alle banche europee rispetto al 2011 anche per uno scenario macro molto più severo, che potrebbe costare fino a quattro punti di capitale», sottolinea uno studio recente di Mediobanca Securities, a firma di Antonio Guglielmi, che come «osservati speciali» cita il Regno Unito e, appunto, la Germania. Dove stanno affiorando alcuni deficit strutturali. Sul mercato domestico, le banche tedesche hanno posizioni ridotte: le prime tre messe insieme coprono meno del 10 per cento della clientela al dettaglio. Per capirsi, se Intesa ha il 20 per cento del mercato italiano, Commerzbank si ferma al 4 di quello teutonico. Molte sono state costrette a cercare ricavi fuori dalla loro giurisdizione, commettendo qualche azzardo. «Fra titoli Internet, subprime, Btp venduti ai minimi, Grecia e immobili spagnoli, le perdite di portafoglio tedesche dal 2000 a oggi sono state pari al 30 per cento del Pil nazionale. In pratica la Germania si è mangiata con le sue follie finanziarie cinque anni di surplus delle partite correnti», scrive Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos. A mettere le mani avanti sono le stesse autorità locali. «Si punta il dito contro l’Italia, la Spagna, la Grecia, ma la Germania ha molto da fare», ha ammesso il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che guarda con preoccupazione all’impatto delle incertezze politiche dell’Est Europa. «Il governo ha fatto un intervento pesante sulle sue banche, che però hanno solo posticipato le esposizioni. Non solo. Tra il 2008 e il 2012, dopo Irlanda e Regno Unito, la Germania è il Paese che ha fornito più aiuti di Stato al sistema bancario, con l’aiuto di regole europee molto accomodanti. La Bce ora tiene gli occhi puntati anche su di loro», spiega Diego Valiante, responsabile della ricerca sui mercati finanziari per il Centre for European Policy Studies, a Bruxelles.
Chi altro finirà dietro la lavagna? La filiale internazionale del gruppo austriaco Raiffeisen Zentralbank ha dovuto aumentare del 28 per cento i fondi per rischi su crediti dopo la svalutazione della moneta ucraina che, da sola, genera per l’istituto una perdita di 220 milioni di euro. Altre si stanno ancora leccando le ferite, come la francese Crédit Agricole che in 6-7 anni in Grecia ha perso 8 miliardi o come la Royal Bank of Scotland, uno dei casi più discussi. La banca controllata all’81 per cento dal governo di Londra ha battuto le attese degli analisti, chiudendo il primo trimestre del 2014 con un utile di 1,2 miliardi di sterline. Ma fa ancora i conti con il passato: cinque azionisti, tra cui le maggiori compagnie di assicurazioni britanniche, hanno intentato una causa da 1 miliardo di sterline, accusando la banca di averli «imbrogliati» sul maxi-aumento di capitale del 2008. Una brutta gatta da pelare per l’istituto, sottoposto agli stress test condotti, parallelamente a quelli Bce, dalla Banca d’Inghilterra.
«Le banche tedesche e francesi potrebbero andare incontro a situazioni analoghe a quelle che noi abbiamo sperimentato negli ultimi tre anni», ha detto l’amministratore delegato di Intesa, Carlo Messina. Ciò non significa, però, che le italiane - alle prese con un round da 13 miliardi di aumenti di capitale - abbiano già in tasca la promozione. Secondo un’analisi di Prometeia, tra quest’anno e il 2016 incasseranno circa 23 miliardi di utili, una cifra che equivale a poco più della metà dei 41 persi nella crisi. L’anno in corso resta però difficile: è infatti ancora al massimo storico del 4,8 per cento il cosiddetto «indice di decadimento», che segnala quanta parte dei crediti in bonis si trasforma in sofferenze. E ancora: il rischio-Paese è sempre in agguato, nonostante il voto europeo lasci sperare gli investitori sul fronte della stabilità politica. «Secondo i dati della Bce, alla fine del 2013 le banche italiane detenevano in titoli, per la maggior parte obbligazioni governative, valori addirittura superiori al proprio capitale e alle riserve. Quasi il doppio rispetto a cinque anni prima. Se i mercati dei titoli di Stato nei Paesi periferici dovessero congelarsi nuovamente, ci potrebbero essere ripercussioni», spiega Hans Wright, capo Research Financial Services di Standard & Poor’s. Di recente l’agenzia di rating ha migliorato il suo giudizio sulla Spagna, premiando le riforme intraprese dal 2010. II 6 giugno tocca all’Italia. Dita incrociate.