Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 21/5/2014, 21 maggio 2014
L’ENI E LA FAIDA PER IL RUBINETTO LIBICO
Il parlamento libico va in fiamme, ma la produzione di gas e petrolio no. Non ancora, almeno. E questa è una buona notizia per gli interessi di Eni che coincidono, almeno in parte, con quelli italiani. Dal 2010 (l’ultimo anno in cui Gheddafi è alla guida del Paese) al 2013 la produzione del cane a sei zampe è scesa da 273 mila a 228 mila barili di olio equivalente, l’unità di misura che tiene insieme gas e petrolio. Un calo, ma non un tracollo. Questo perché l’azienda italiana ha concentrato la produzione nelle aree occidentali in Tripolitania, quelle relativamente più stabili, nonostante l’80 per cento degli idrocarburi del Paese si trovino a est, in Cirenaica, la zona dove è più forte la penetrazione delle milizie islamiste.
Il cordone che lega Roma e Tripoli è antico (103 anni, inizia con la conquista del 1911) ma soprattutto molto lungo. Per la precisione 520 chilometri, quelli del gasdotto Greenstream, che collega il giacimento offshore di Bahr Essalam e quello di Wafa (situato nel deserto, vicino al confine con l’Algeria) con le coste siciliane. Di qui passano 5,7 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, una fetta consistente dei totali 61 importati ogni anno dall’Italia. E, situazione politica permettendo, potrebbe aumentare nei prossimi anni, perché l’Italia potrebbe avere bisogno di bilanciare il peso della Russia (che oggi fornisce la metà del metano importato), e perché i pozzi di Eni non stanno funzionando a pieno regime. Due sono fermi (Elphant in Tripolitania e Abu Attifel in Cirenaica) a causa di “rivendicazioni economiche e sociali”. Eppure Eni rimane il primo estrattore di gas e petrolio del Paese, molto davanti agli spagnoli Repsol.
NEL 2011, quando il governo di Sarkozy decise di appoggiare gli insorti in Cirenaica e di sponsorizzare l’intervento militare occidentale, gran parte degli osservatori internazionali videro dietro quella scelta la longa manus di Total, decisa a recuperare terreno (e giacimenti) nei confronti dell’azienda italiana. Non è andata così, e anzi la crescente instabilità nelle zone orientali minaccia soprattutto i competitor del cane a sei zampe, ad esempio i tedeschi di Rwe. La favorevole disposizione logistica dei giacimenti ha permesso a Eni di mantenere il proprio personale (considerando le consociate, circa 3 mila persone, di cui solo un’esigua minoranza italiani) nel Paese nordafricano, mentre altre compagnie, come gli algerini di Sonatrach , hanno già fatto i bagagli per tornare a casa.
Merito anche della profonda rete di rapporti intessuta nel corso di più di mezzo secolo con i ras locali. È il 1959 quando Enrico Mattei prova per la prima volta a conquistare un permesso di esplorazione nell’ex colonia. Per farlo dovrà sfidare gli americani di Esso, già presenti a Tripoli. Alla guida del Paese c’era ancora re Idris Al Sanussi, ma il vero colpo di fortuna per Eni arriva dieci anni dopo, quando il colonnello Muammar Gheddafi depone il sovrano. La prima mossa del rais è quella di nazionalizzare tutte le risorse petrolifere. Le altre compagnie sono costrette ad andarsene, Eni invece trova un accordo, sul momento doloroso (la cessione del 50 per cento dei giacimenti alla neonata Noc, la compagnia statale libica) ma che sul lungo periodo si rivelerà vincente. Nonostante Ustica, Lockerbie e la guerra del 2011, in Libia Eni è di casa. Per questo è importante che il Paese non precipiti nel caos, soprattutto ora che la crisi ucraina mette a rischio il rapporto con Mosca.
Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 21/5/2014