Enrica Brocardo, Vanity Fair 21/5/2014, 21 maggio 2014
LILIN: «IO CHE SO COS’È LA GUERRA»
«Ho un sogno, lo stesso di John Lennon: un pianeta senza confini, senza guerre». Nicolai Lilin lo racconta quasi alla fine dell’intervista, sulla scia di una mia domanda sulle elezioni europee («ma non le dico per chi voto»). Su come realizzare quel sogno, però, ha un approccio che non credo convincerebbe molto l’ex Beatle. Intanto, perché a Lilin i pacifisti puri non piacciono. E poi perché non riesco a immaginare Lennon con coltelli antichi e tenaglie per fondere pallottole appesi ai muri. Che, poi, è quello che vedo in una stanza del suo ufficio a Milano (una piccola parte del suo arsenale: Lilin non ha mai fatto mistero di avere una passione per le armi), dove vive con la compagna Valentina Aponte, 39 anni, dalla quale tre mesi fa ha avuto una bambina che si chiama Ada e se la dorme tranquillamente.
La sua primogenita, Elena, ha 7 anni e sta con la madre, l’ex moglie di Lilin, in Piemonte, dove lui arrivò dieci anni fa, a 24. E dove lo incontrai la prima volta ai tempi del suo esordio, nel 2009, con Educazione siberiana, romanzo sulla sua infanzia e la sua famiglia di «criminali onesti» in una cittadina della Transnistria, sotto il regime sovietico, diventato poi un long seller e un film diretto da Gabriele Salvatores. A quel primo libro ne sono seguiti altri due che hanno concluso la sua trilogia «autobiografica», e uno sui tatuaggi della tradizione siberiana, Storie sulla pelle (Lilin ama definirsi un «tatuatore non professionista»).
Ora torna con un’opera di fiction, Il serpente di Dio, ambientata in quello che definirei il «gran casino» del Caucaso, incrocio di traffici, etnie, religioni, terroristi e controterroristi. Tutti rappresentati dai vari personaggi: il capo di una banda di guerriglieri musulmani, un agente dei servizi di sicurezza doppiogiochista, il capitano di un gruppo di sabotatori russi, una coppia di killer professionisti, i «soldati» dell’emirato del Caucaso, gli abitanti di un villaggio dove cristiani e islamici convivono pacificamente da generazioni e da cui provengono due ragazzi, che nonostante le fedi diverse si considerano fratelli.
«Il senso del romanzo», mi dice, «è che la salvezza sta nell’aprirci completamente a Dio». Quanto al titolo: «I due ragazzini incontrano un serpente nel bosco. È una metafora per dire che certi eventi possono essere interpretati in modi diversi: per chi crede si tratta di un intervento dall’alto, per altri forse è solo una coincidenza».
Lei è credente?
«Credente, non praticante».
Serpenti di Dio ne ha incontrati tanti?
«Sì. Credo molto nelle coincidenze, nel destino. La mia seconda figlia è nata il giorno del mio compleanno, il 12 febbraio. Lo considero un regalo che la vita mi ha fatto».
Lei mi dà l’idea di uno che avrebbe preferito figli maschi per poter dire: «Andiamo a sparare insieme». Sbaglio?
«Elena condivide già un po’ la mia passione. Ogni tanto la porto con me in armeria. Le armi non le fanno paura, le piacciono esteticamente. Ma è una bambina, è giusto che faccia cose da femmina».
Per esempio?
«Andare a pescare o al poligono insieme va bene, ma niente attività violente. Non mi chiede di smontare la pistola, preferisce disegnare: principesse, cose così».
È difficile fare il padre di due figlie nate da madri diverse?
«Cerchiamo di vivere come una famiglia allargata. La mia compagna e la mia ex moglie si conoscono e mi pare che abbiamo un buon rapporto (guarda lei che annuisce), non ci sono stati strappi violenti, nessun melodramma. Elena è contenta di avere una sorella, Ada lo sarà appena crescerà abbastanza per capire».
Finirà che andrete tutti al poligono felici e contenti. Sto scherzando, ma la verità è che questa sua passione per le armi non riesco a condividerla.
«Proprio perché ripudiamo la guerra, dobbiamo essere pronti ad affrontarla. Il pacifismo che non riconosce la violenza nel mondo ci rende tolleranti al male».
E come ci si prepara?
«Quando ero piccolo, a scuola facevamo due ore a settimana di educazione militare: ci insegnavano a lottare, a mettere o a disinnescare le mine, a sparare ai paracadutisti. Le assicuro che, con una formazione del genere, quando arrivi a 15-16 anni non hai più voglia di fare la guerra. Non come in America, dove i ragazzi crescono vedendo la guerra nei film e nei videogame, e si convincono che sia un gioco divertente».
Secondo lei, dovremmo insegnare lo stesso nelle scuole italiane?
«Ma no. Piuttosto, bisognerebbe investire più soldi: gli insegnanti sono pochi, mal pagati. Noi a scuola avevamo un medico e tre infermieri. Se avevi mal di denti, ti curavano gratis. E ogni mattina controllavano la salute, l’igiene dei bambini. Elena, poverina, l’inverno scorso si è presa i pidocchi».
Si è sempre definito un patriota italiano. Sta cambiando idea?
«Per niente. L’Italia mi piace. Anche la burocrazia qui funziona molto bene».
Mi sa che è l’unico a crederlo.
«Invito chi non la pensa così a vivere per un po’ in Transnistria».