Fabio Tonacci - Riccardo Luna, la Repubblica 21/5/2014, 21 maggio 2014
APP-ECONOMY
Non possedere niente, ma usare tutto. Accedere a un servizio, senza mai comprarlo. Condividere oggetti, capacità, automobili, il tempo e gli spazi. C’è addirittura chi pensa che il capitalismo finirà così, seppellito dalla sharing economy. Per adesso, l’effetto concreto in Italia di Uber Pop, Blablacar, Airbnb, Becrowdy, Coworking for e delle altre 100 e passa piattaforme di condivisione attive è quello del grimaldello: fanno scricchiolare monopoli antichi, scardinano a poco a poco mercati dominati dalle lobby, protetti dalla politica e da vecchie leggi, rese desuete dalla tecnologia ma sempre e comunque leggi. Quello che sta succedendo a Milano, con i tassisti in sciopero da tre giorni, ne è la prevedibile conseguenza.
Uber pop, Blablacar, Lyft e le altre app dedicate alla mobilità mettono in contatto gli automobilisti per organizzare passaggi in macchina. Sono entrate, con innegabili forzature della legge quadro che risale al 1992, in un settore prima dominato dalle sigle
dei tassisti, negli anni capaci anche di imporre ai sindaci i tetti alle licenze. «Sono illegali – continuano a sostenere i sindacati delle auto bianche – funzionano come taxi abusivi, fanno concorrenza sleale. Eppure noi le licenze le abbiamo pagate 100, 150 mila euro. Lo Stato, o i Comuni, devono fermarli, ci devono proteggere».
Negli ultimi due anni nel nostro Paese sono spuntate 136 piattaforme digitali di sharing economy, soprattutto al Nord. Nel 2013 il 13 per cento della popolazione, 7 milioni italiani, le ha utilizzate almeno una volta: condividendo con sconosciuti l’automobile, un posto letto, la babysitter, l’abilità ai fornelli, barattando oggetti, raccogliendo fondi. «Boom dovuto alla crisi e alla familiarità crescente con social network e smartphone – spiega Marta Manieri, gestore del sito collaboriamo.org – il fenomeno crescerà ancora, le possibilità sono enormi. I benefici per chi partecipa, in termini di risparmio, pure. Per l’Expo faremo sperimentazioni coi servizi di mobilità, di accoglienza e del food». La logica è quella del peer to peer, quella del primo eBay per intenderci, anno 1996, quando era solo un bazar online di oggetti usati: due utenti si scambiano qualcosa attraverso un portale che ha un margine di guadagno. Da lì in poi sono nate centinaia di startup, spesso border line rispetto a normative e leggi.
Prendete Becrowdy, Boomstarter, Dropis, Eppela, Prestiamoci e le altre le 22 piattaforme del crowfunding, il micro-finanziamento dal basso, utilizzabili in Italia. Grazie ad esse si sono raccolti finora 23 milioni di euro, l’80 per cento dei quali con la formula del social lending, del prestito senza l’intermediazione bancaria finalizzato alla realizzazione di progetti. Una goccia nel mare della finanza, certo, ma comunque un’incursione nel mondo in cui da sempre i padroni sono gli istituti bancari, e solo loro. «La sharing economy ha sicuramente questo di positivo — spiega Mario Maggioni, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano — abbatte barriere “artificiali” create in alcuni mercati. Tant’è che la nuova legge sulle banche di investimento ha cercato di includere le forme di crowdfunding».
Ma non è tutto sharing quello che luccica, a quanto pare. «Ci sono anche dei criteri di qualità e sicurezza che i servizi pubblici, quali questi sono, devono comunque garantire – continua Maggioni – non credo che tutte le forme di affitto tra privati rispondano sempre a tali requisiti». Il riferimento è a Airbnb, la app inventata a San Francisco nel 2008 che sta avendo un gran successo: bypassando agenzie immobiliari e siti specializzati tipo booking.com o expedia (su di loro l’Antitrust italiano ha aperto un’istruttoria per possibili violazioni della concorrenza), ha messo in piedi in 194 paesi una rete di 600mila alloggi per l’affitto a breve termine di stanze, appartamenti, a volte castelli. Come unica garanzia della qualità delle sistemazioni, le foto e i feedback degli altri utenti.
«In Italia Airbnb ha un ruolo diverso, meno dirompente rispetto a Uber», spiega Matteo Stifanelli, il country manager. «L’affitto a breve termine è perfettamente legale da anni, e di fatto la nostra startup ha regolato situazioni già esistenti». Stifanelli ricorre all’esempio di Milano, durante la design week: «I milanesi da anni affittano ai viaggiatori stanze e appartamenti nella settimana del design. Con Airbnb hanno la possibilità di farlo seguendo le disposizioni di legge, tutto qua. Quest’anno abbiamo avuto 5000 posti, quasi tutti affittati».
Il servizio di intermediazione costa il 10 per cento dell’importo giornaliero, stabilito da chi mette a disposizione l’alloggio, ed è chiaro dove sia il business in un paese come il nostro che conta 48 milioni di arrivi all’anno. Tant’è che ogni giorno 12mila persone utilizzano il sito Airbnb per soggiornare in Italia, e gli spazi a disposizione sono già più di 60mila. Gli albergatori e le agenzie immobiliari non l’hanno presa benissimo, si sono appellate al rispetto delle rigide normative a cui loro devono sottostare. «Non siamo un loro competitor diretto – risponde sul punto Stifanelli – i nostri clienti non scelgono l’albergo».
Nell’universo in fermento della sharing economy, ci sono anche piattaforme che non dividono, che trovano il plauso generale. Tale pare essere Locloc, la prima app italiana del noleggio tra privati. Più gli oggetti sono insoliti, più sono richiesti. «Metal detector, vestiti per la danza del ventre, sci da coppa del mondo — racconta Michela Nose, la fondatrice — abbiamo 12.500 iscritti e ancora ci stupiamo delle cose che vengono noleggiate. Mi aspettavo i mugugni di negozianti e centri commerciali, invece niente. Ma forse perché la nostra è una realtà ancora piccola, che non dà fastidio».
RICCARDO LUNA
MAÈ la condivisione o la disperazione il motore di tutto? Un mese fa il dibattito su cosa sia davvero, aldilà dei facili slogan, la sharing economy è esploso negli Stati Uniti. E in campo sono scesi due pesi massimi. Da una parte, a San Francisco, si è schierato Wired, il mensile icona della Silicon Valley e del cambiamento innescato dalla rivoluzione digitale. E dall’altra si è opposto il primo settimanale patinato dell’east coast, il New York.
Era accaduto questo. L’ultima storia di copertina di Wired celebrava il trionfo dei siti come Uber e AirBnb e in definitiva la rivoluzione culturale innescata dalla economia collaborativa. Che bello, era il senso di tutto, grazie a Internet e a queste app adesso gli americani si fidano degli sconosciuti. E poco importa che le statistiche dimostrassero che il livello di diffidenza degli americani verso “l’altro” è ancora altissimo (59 per cento). La morale era solo una: trust me!, fidatevi, fidiamoci. Di chi ti affitta la stanza o l’auto, di chi ti guarda il cane o di chi viene in casa tua a fare quei lavoretti che non sai fare. Bello. Ma falso. Perché — è la tesi del New York magazine — il vero motore che ci mette nelle condizioni di affittarci tutto, e che ci spinge nelle mani di sconosciuti per avere dei servizi a basso costo, sarebbe la crisi economica. “Per capire perché queste app hanno tanto successo, guardate i dati: dalle crisi del 2008 a oggi molti posti di lavoro sono andati perduti e una parte si è trasformata in lavoro precario. E i salari reali sono calati per tutti”.
I numeri sono questi. Negli Stati Uniti come in Europa. Ma non spiegano tutto. Infatti non c’è dubbio che la crisi economica stia accelerando la diffusione del “consumo collaborativo” come lo chiamò nel suo best seller Rachel Botsman — “Quel che è mio è tuo” — tre anni fa. Ma è in corso un cambiamento più profondo. La fine del concetto di proprietà esclusiva per far spazio non tanto a una proprietà condivisa di stampo socialista, quanto piuttosto all’acquisto di un servizio più che di un bene. Mi compro il passaggio in auto quando mi serve invece dell’auto e così via: per tutto. Pago, poco, quello che consumo e basta. Per le nuove generazioni è questo l’unico modo di vivere. È l’alba di un nuovo capitalismo? Vedremo, intanto quello che si può dire è che in questa rivoluzione Internet agisce in due modi: il primo è infrastrutturale, diffondendo le offerte e domande di consumi collaborativi; il secondo è reputazionale. Infatti formalmente la sharing economy ti porta a fidarti degli sconosciuti, ma in rete nessuno è davvero sconosciuto. C’è una storia che parla per noi, ci sono le tracce digitali e le referenze che quelli che hanno avuto a che fare con noi hanno lasciato. Queste due leve stanno aprendo le porte a una economia parallela. Piccola? Si, ma neanche tanto. Sempre la Botsman ha calcolato che parliamo di un mercato globale di 26 miliardi di dollari. A San Francisco chi si affitta una o più stanze, in media lo fa per 58 giorni l’anno, mettendosi in tasca circa novemila dollari l’anno. Moltiplicate per centinaia di migliaia di annunci al giorno e capirete perché l’ultimo round di finanziamento ha fatto volare la valutazione di AirBnb a dieci miliardi di dollari. Roba che molte catene alberghiere se la sognano. Quelli che all’inizio snobbavano i servizi peer to peer adesso si preoccupano. E quando non scendono in piazza a protestare contro Uber, chiedono misure legislative e fiscali restrittive: chi regola questi servizi? Come pagano le tasse? In molti paesi europei e stati americani è tutta una corsa ad adeguare le leggi. Ma non sarà una norma ottusa a fermare il cambiamento. È bene che i tassisti lo sappiano. Lo dice la storia. Nel 1865 per esempio nel Regno Unito si stabilì che le auto potessero circolare solo a passo d’uomo e dietro un agente con la bandiera rossa in mano in segno di pericolo. Non servì a salvare le carrozze con i cavalli.