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 2014  maggio 11 Domenica calendario

L’ANTIFASCISTA RILUTTANTE


Il 22 febbraio 1932 Giovanni Ansaldo, che di lì a qualche anno sarebbe andato a dirigere «Il Telegrafo» trasformandosi nel «giornalista di Ciano», scrisse nel suo diario parole che sono un tentativo di autoanalisi: «Impressionabile, mutevole, nevrotico, io non ho, né posso avere, principi politici. Ho di peggio, ho dei puntigli, delle velleità, degli scatti di amor proprio, delle incoerenze derivanti da spirito di contraddizione. Sono stato antifascista soprattutto per una specie di amor proprio, che mi vietava di lasciare il campo degli antifascisti proprio quando ferveva la battaglia; adesso mi riaccosto al fascismo per picca, per far vedere a tutti gli "anti" di cui sono circondato che non sono prigioniero, né della loro amicizia, né del mio passato». In questo singolare autoritratto v’è qualcosa di vero. Non a caso Mussolini, quando già Ansaldo era diventato una stella del giornalismo di regime, disse che era uno dei pochi giornalisti coi quali era possibile «discutere di cultura del fascismo» malgrado facesse «sforzi eroici per sentirsi fascista».
In realtà, Ansaldo, ironico e pungente, era un conservatore nei gusti, nel tratto e nel comportamento. Il suo bagaglio intellettuale comprendeva i grandi moralisti francesi, da Saint-Beuve a Saint-Simon fino a Montaigne, ma anche storici come Hyppolite Taine e cronisti della società e della mondanità come i fratelli Goncourt. Il che spiega perché egli fosse costretto agli «sforzi eroici» dei quali parlava Mussolini di fronte alla rumorosità, allo stile, al cattivo gusto del regime. Anche il suo antifascismo degli anni Venti era frutto più di lati caratteriali e di amicizie che non di una scelta razionale. Lo confermano i suoi diari degli anni Venti, pubblicati con il titolo Memorie da un editore raffinato come Nino Aragno e accompagnati da una splendida prefazione di Giuseppe Marcenaro che ricostruisce con finezza l’ambiente culturale e politico del tempo, soprattutto di quella Genova dove Ansaldo si era formato.
Nato sul finire del secolo, nel 1895, Ansaldo (che sarebbe morto nel 1969 dopo aver diretto il quotidiano napoletano «Il Mattino» per un quindicennio) aveva respirato un’atmosfera pregna di umori risorgimentali e postrisorgimentali, aveva preso parte con entusiasmo alle battaglie per l’interventismo. Nel dopoguerra aveva cominciato la carriera giornalistica. I suoi primi articoli apparvero su «L’Unità» di Gaetano Salvemini, per il quale egli provava «affetto e ammirazione» al punto da annotare, il 26 novembre 1922, che era «l’uomo che esercitò più influenza sulle mie idee» e del quale riteneva «d’essere il legatario più riconoscente della nuova generazione»: quello stesso Salvemini che aveva scritto nel 1910 il caustico pamphlet antigiolittiano Il ministro della mala vita cui Ansaldo, nel secondo dopoguerra, avrebbe implicitamente risposto con la biografia Il ministro della buona vita (Le Lettere, 2002) suggestiva e nostalgica evocazione del bel tempo che fu. La firma di Ansaldo, divenuto frattanto redattore del quotidiano genovese «Il Lavoro» diretto dal deputato socialista Giuseppe Canepa, apparve con regolarità su «La Rivoluzione Liberale» di Piero Gobetti con il quale si stabilì un sodalizio profondo attestato anche dalla corrispondenza fra i due.
Erano gli anni dell’inquieto dopoguerra, dei disordini continui, dello squadrismo. Il 29 settembre 1921 egli annotava: «In Italia, ormai quotidianamente, si uccide sulla pubblica piazza, si pugnala e si bastona impunemente. Di notte, ma anche alla luce del sole. I rappresentanti dello Stato – coloro che dovrebbero mantenere l’ordine ed arrestare i riottosi e i violenti – intervengono solo per contare i morti e raccogliere i feriti». Il fascismo era alle porte. Il 29 ottobre 1922, all’indomani della marcia su Roma, Ansaldo denunciava la «pavidità» del re che si era rifutato di «firmare lo stato di assedio» e non aveva fatto un «suo pronunciamento», e scriveva parole profetiche: «Meglio Mussolini I che Vittorio Emanuele III. Cela se faira. Conseguenza logica possibile: Mussolini presidente, Mussolini dittatore, Mussolini che fa la guerra per distrarre l’attenzione dalle questioni interne, sconfitta, straniero, vendette, pace, ristabilimento, Umberto II. Ecco la parabola». All’«antifascista riluttante» – così si sarebbe autodefinito – davano fastidio soprattutto le manifestazioni esteriori del regime a cominciare dalle mode linguistiche che si stavano imponendo: «Da quando siamo retti dal figlio di un fabbro – annotava il 29 marzo 1925 – la terminologia della fucina (incudine, forgia, maglio, martello ecc.) è sulla punta della lingua e anche di penna di tutti».
Le Memorie, cioè i diari di Ansaldo degli anni Venti integrati dalla sua corrispondenza con personalità del mondo politico e culturale del tempo, offrono una rappresentazione in presa diretta di un intero decennio visto attraverso la penna caustica e ironica, caricata di inchiostro all’acido prussico, di un osservatore incline allo scetticismo. Uno scetticismo che è confermato dalle considerazioni del 4 giugno 1926 suggerite dalla lettura del libro Autorità e libertà di Giuseppe Rensi: «Mi pare che l’unico fondamento del vivere civile sia nello scetticismo, ovvero in un realismo che proceda riconoscendo l’esistenza di un mondo esteriore, saggiandolo e risaggiandolo. Di qui solo può dedursi una pratica della autorità non oppressiva, non dispotica, ma relativamente tollerante, diciamo giolittiana».
Il dato psicologico e caratteriale di Ansaldo, quale emerge dai suoi diari, spiega la natura e i limiti del suo antifascismo (che, pure, gli costò il carcere e il confino) ma anche quelli della sua successiva adesione al fascismo e – perché no? – del suo innamoramento per De Gasperi nel quale finì per vedere una sorta di reincarnazione di Giolitti. Il conservatorismo di Ansaldo, venato dal disincanto e dal pessimismo di uno spirito volterriano, è la chiave di lettura della sua vita e dei suoi passaggi di campo.

Francesco Perfetti, Il Sole 24 Ore 11/5/2014