Bruno Forte, Il Sole 24 Ore 11/5/2014, 11 maggio 2014
GIRO D’ITALIA TRA MACERIE E SPERANZA
È un libro che unisce oggettività e passione, quello in cui Roberto Napoletano raccoglie i suoi «Memorandum», pubblicati ogni domenica in questa pagina. Il titolo evoca le testimonianze del "grand tour" caro ai Romantici, soprattutto stranieri, innamorati del Bel Paese e non di rado colpiti dalla disaffezione a esso dei suoi abitanti: Viaggio in Italia. I luoghi, le emozioni, il coraggio di un Paese che soffre ma non si arrende.
Scorrendone le pagine – che si lasciano leggere con singolare rapidità e interesse – colpisce la continua mescolanza dei sentimenti che le pervadono: amore, dolore e speranza. L’amore è quello viscerale a questa terra, cuore del Mediterraneo, culla irradiante di civiltà dai tempi della Magna Graecia e della grandezza di Roma fino ai nostri giorni, attraverso la fioritura medioevale dei Comuni e le creazioni letterarie, artistiche e religiose di un Dante, di un Giotto e di un San Francesco, la stagione prodigiosa del Rinascimento, i contributi di Giovambattista Vico e dell’Illuminismo settecentesco e successivamente dell’Ottocento di un Manzoni o di un Leopardi, l’avventura appassionata del Risorgimento, fino alle tortuose vicende del «secolo breve», con le due guerre mondiali, il totalitarismo e la nascita della democrazia.
A testimonianza dell’amore che il Bel Paese suscita, Napoletano cita tra le altre queste parole del grande Brahms, in una lettera a Clara Schumann, moglie e musa ispiratrice del suo Maestro Robert («Cara Clara», Roma, aprile 1881): «Non puoi farti un’idea di che cos’è realmente la bellezza se non visiti l’Italia almeno una volta». Certo, le voci di questo amore all’Italia sono spesso dolenti, espressioni di una ferita tanto più avvertita, quanto più profondo è l’amore stesso: così quella di Licia Mattioli, presidente degli industriali torinesi, che presenta lo scopo dell’iniziativa di riunire tutti gli imprenditori piemontesi in una grande piazza virtuale con queste parole: «Urlare pacificamente: Italia ti amo, ma basta!». Basta rispetto a che?
Si affaccia qui l’aspetto di cahier de doléances del libro, intenso e graffiante: una bellezza offesa e tradita; un capitale umano non valorizzato, spesso sciupato, a favore di una spaventosa fuga di cervelli, in cerca di impiego fuori del Paese; un potenziale di creatività culturale e artistica, di inventività scientifica e di capacità tecnica e manuale, posto nella quasi impossibilità di esprimersi e di dar frutto; un mondo giovanile, anche di grande valore, privato di stimoli e speranze plausibili! Questo è il dolore che non può non provare chi ama l’Italia e ne costata le condizioni attuali: è «il grido di dolore di un’imprenditoria manifatturiera che vive di mercato e non ha nulla a che vedere con un capitalismo corrotto che non ha esitato a saccheggiare lo Stato in un patto perverso e ha trovato nella spesa pubblica improduttiva delle Regioni nuova linfa e alimento... C’è una provincia diffusa di artigiani, piccoli e medi imprenditori, da Nord a Sud, che non si arrende, fa ricerca e innovazione e conquista nuovi mercati, ma è ignorata se non derisa da tutti e resta appesantita da fardelli (italiani) che non hanno pari al mondo a partire da una burocrazia ossessiva, una giustizia (soprattutto) amministrativa e civile spesso soffocante, un peso fiscale che resta decisamente abnorme e un accesso al credito ancora difficile». Al Politecnico di Milano, un discorso di Mauro Brivio, presidente del Consiglio degli studenti, dipinge la situazione nel modo più realistico e impietoso: «Nel considerare la mia condizione, mi sono chiesto quale caratteristica mi accomuni a tutti gli altri giovani e studenti di questo Paese. La risposta più spontanea e istintiva è stata la paura... La mia generazione ha paura del proprio futuro; non credo possa trovarsi un indicatore più significativo per certificare lo stato di malessere di un Paese». È possibile liberarsi da questa paura e trovare insieme il coraggio di sperare e di organizzare la speranza? La risposta viene anzitutto dall’Italia che funziona: «Qui la crisi non si vede», azzarda Napoletano parlando a un ristoratore trentino nel suo locale, dove «si percepisce un ordinato benessere e un sereno conversare a voce bassa, mentre uomini, donne e cose si godono il tramonto con l’aria pulita della montagna». E l’uomo non esita a rispondere: «Ci ha preso solo di striscio perché noi abbiamo il vantaggio di una Provincia che impone molte tasse, ma restituisce molti servizi». È l’Italia migliore, quella che funziona e dimostra come potrebbe funzionare anche il resto del Paese.
Per far emergere questa Italia e renderla vincente, occorrono alcune condizioni: la prima è avere il coraggio della verità e la fiducia: «Oggi più che mai questo Paese non ha bisogno di semplicismi e ottimismi di maniera ma del coraggio della verità per costruire un clima (solido) di fiducia fatto di consapevolezza e capacità all’altezza delle sfide cruciali che abbiamo davanti e con le quali dovremo giocoforza misurarci. Non si riscrive per decreto il perimetro dello Stato e solo la forza della buona politica può mettere a dieta (davvero) amministrazioni regionali e non solo! che si sono dotate di strutture pubbliche degne di uno Stato, arrivando a moltiplicare al cubo i poteri di interdizione, impedendo di fare opere (ovunque) e gonfiando a dismisura organici già pletorici». È vero: «Nessun Paese può sopravvivere se perde la speranza di una buona politica». Perché questa ci sia, però, è necessario scommettere seriamente sulla formazione e sulla cultura: occorre «investire nel grande capitale (dimenticato) del Paese, farne la linfa (viva) delle sue generazioni più giovani». «In ogni borgo, dove meno te lo aspetti, ti accorgi che ci sono le impronte di un popolo di scienziati e di artisti. Dobbiamo credere di più in noi stessi e smetterla di continuare a sprecare il talento dei nostri ragazzi e dei tanti che continuano a essere considerati giovani per la pensione e vecchi per le aziende. Uno spreco che non ci possiamo più consentire». Il capitale umano del nostro popolo è veramente quello «sul quale investire... l’unico che alla lunga può rivelarsi redditizio per la nostra Italia».
Tutto questo, però, non avverrà senza un sussulto morale, una profonda rivoluzione spirituale. Lo aveva capito un grande statista – oltre che profondo credente e testimone della fede – quale fu Alcide De Gasperi. Un suo pensiero memorabile, citato da Napoletano, mi sembra sintetizzare il messaggio più forte del libro: «Nessuno pensa che ogni riforma deve incominciare da se stesso e che la società raggiungerà lidi migliori se, ognuno per conto proprio, avrà aperto le ali e preso il volo senza aspettare gli altri». Per dire all’Italia «svegliati e rinasci», occorre che ciascuno ordini a se stesso e alla propria coscienza, ponendosi di fronte a quanto riconosce di più sacro e vero, «apri le tue ali e vola», senza fermarsi a fare confronti o ad aspettare che altri comincino. L’urgenza della rinascita non ammette ritardi, né può tollerare comodi scarichi di responsabilità. L’imperativo morale è categorico. La posta in gioco è il futuro di tutti, e non di meno la dignità e la salvezza spirituale di ognuno.
Bruno Forte, Il Sole 24 Ore 11/5/2014