Maurizio Bono, la Repubblica 11/5/2014, 11 maggio 2014
ANDREA VITALI
MILANO
Tra i vantaggi di fare il romanziere c’è poter scegliere quasi tutto da solo: dove prendere letterariamente la residenza — dal sottosuolo alla giungla di Mompracem — e perfino in che epoca vivere. La prima chance, Andrea Vitali l’ha francamente buttata via: nato, cresciuto, per trent’anni medico di famiglia a Bellano, tremila anime sul lago di Como, come scrittore non s’è mai mosso di lì. Se nei suoi romanzi un personaggio prende il treno per Lecco è già un’avventura nell’avventura. La scelta dell’epoca, però, l’ha sfruttata con determinazione, nel suo gruppo centrale di romanzi cui appartiene anche l’ultimo, Quattro sberle benedette: gli anni Trenta. Ed è con quell’Italietta lì, paesana e garbatamente ridicola ora che non c’è quasi più nessuno di quelli che l’avevano presa sul serio, che in una decina di titoli ha risalito la corrente dei bestseller, guadagnandosi col libro più recente la fascetta “scrittore da due milioni e mezzo di lettori” e permettendosi col penultimo (Premiata ditta sorelle Ficcadenti, Rizzoli) il lusso di una «giterella fuori porta», come la chiama lui, con un editore diverso dal consueto Garzanti. Scappatella che perfino un po’ lo imbarazza («L’ho fatto con ingenuità, dando retta a un agente che ho avuto per otto mesi»), ma per gli addetti ai lavori brilla come una licenza concessa a poche galline editoriali dalle uova d’oro (Camilleri in testa).
Magro, sorridente, in giubbotto di daino e jeans, parlata inequivocabilmente lombarda, Vitali non schiva la domanda diretta: ma com’è che un “ragazzo del ‘56”, cresciuto nei Settanta quando sull’Italietta fascista si amava poco scherzare, si è “retrodatato” a un’epoca di prevosti e perpetue impiccione, tronfi podestà e svogliate adunate in fez, tranquilli marescialli dei carabinieri e beghe di villaggio? La risposta è che un’Italia simile, se non l’avesse trovata, Vitali avrebbe dovuto inventarsela: «La commedia umana mica si può far recitare tra le catastrofi. Ci vuole un tempo pacioso come quello lì, diciamo dopo il delitto Matteotti e prima della tragedia delle leggi razziali. Un regime che predicava la magrezza e i milioni di baionette, ma intanto ingrassava e non riusciva più a fare il salto nel cerchio di fuoco. E un popolo che, con nobili eccezioni, sopportava cimici e gagliardetti per quieto vivere. Un’Italia molto seduta, e da seduta, disposta all’operetta. Quello sfondo, per le mie storie, funziona». Talmente bene, funziona, che oltre allo sfondo a volte gli archivi gli hanno fornito il plot. Come per La figlia del Podestà, dieci anni fa, partito da una delibera comunale del 1931: sull’onda delle imprese di Italo Balbo, serviva uno scalo per idrovolanti a Bellano. «Quand’altro la potevi trovare un’idea così? Era un peccato non usarla…».
La dimestichezza con gli archivi comunali Vitali l’ha un po’ ereditata (padre e madre erano impiegati municipali). Ma altrettanto spesso ha citato come “fonti” i pazienti. Conferma? «In pieno. In trentuno anni, di spunti ho riempito i cassetti. Quando arriva uno che ha male a un ginocchio, comincia a spiegarti che la settimana prima aveva deciso di andare a sciare perché i figli e i nipotini insistevano, anche se la moglie preferiva andare al mare, e alla fine lui si è deciso, ma proprio sul più bello, mentre caricava i bagagli… Insomma, di racconti ne ho un magazzino pieno, ci camperò anche ora che con l’ambulatorio ho smesso». E questa è una notizia: «Ho smesso di fare il medico di famiglia, perché ne avevo piena l’anima della burocratizzazione e del computer. Dal primo marzo sono in aspettativa, a settembre sarò ufficialmente dimesso e largo ai giovani. Un’altra ragione comunque è che cominciavo a sentire un po’ di stanchezza: la stanchezza può portare agli errori e quando hai a che fare con la pelle degli altri non è proprio il caso di rischiare».
Scrivendo, in effetti, tutt’al più si rischia la faccia. E Vitali, all’inizio, c’è andato vicino: «Ho sempre avuto questa mania di scrivere, fin dai tempi del liceo. Per fortuna quando l’ho detto a mio padre, classe ‘19, vedovo e con sei figli sulla gobba, lui mi ha risposto: intanto studia da medico, un mestiere vero. Poi arrangiati. Ho obbedito, ma non ho mai rinunciato. Così dopo la laurea ho cominciato a mandare dei racconti alle case editrici». E com’erano? «Terribili. Generalmente cominciavano con “Era una notte buia e tempestosa, il lago schiumava sotto le furiose raffiche del vento”. Per fortuna a un certo punto ho incrociato Raffaele Crovi, che allora dirigeva la casa editrice Camunia. Crovi, uno che nell’anno in cui Vitali nasceva faceva già l’assistente di Elio Vittorini all’Einaudi e poi avrebbe lavorato per Mondadori, Rusconi, Bompiani, era un uomo buono ma un editor difficile: «Mi ha detto: “Vitali, cominci a leggere un po’ di romanzi contemporanei. E non mi richiami più finché non lo ha fatto”». Se pensava di togliersi il ragazzo di torno, comunque, si sbagliava: «Gli ho dato retta alla lettera. Ho investito tre quarti del mio primo stipendio e sono diventato cliente della rateale Einaudi». All’epoca c’era una promozione che fece scandalo perché ai puristi sembrava una concessione al marketing: un cubo di cento libri scelti dal catalogo, scontati. «Ci ho messo tutto Italo Calvino, tutto Sciascia, la Recherche di Proust che ancora è lì che aspetta il momento buono per essere letta. Poi sull’esterno, a fare quasi da spessore per quadrare il cubo, c’era infilato La promessa di Dürrenmatt. Mi ha fatto così pena, quel librettino, che l’ho aperto subito, e sono rimasto folgorato. E intanto scoprivo anche Sciascia».
Il corso di recupero ci voleva: «Sarà il fatto di abitare sul lago, ma in quegli anni lì avevo letto quasi solo classici dell’Ottocento». Dopo aver fatto i compiti a casa, ha cercato Crovi di nuovo: «I primi racconti me li ha fatti riscrivere daccapo. Ma soprattutto, conoscendoci meglio, mi è capitato di raccontargli una storia sentita da mio padre, su un tipo di Bellano che tra le due guerre faceva il procacciatore di signorine per i bordelli. Lui mi fissa e mi fa: “Vitali, anziché raccontarmela, questa storia, perché non la scrive?” Nel ‘90 sarebbe diventata il primo romanzo della mia vita, Il procuratore. Ho pensato: “Càspita, ma di storie così ne ho un gerlo”, come diciamo qui. E difatti non ho più smesso di scriverle…». Riassumendo: in sei anni tre romanzi da Camunia e altri piccoli editori. Poi nel 2003 Una finestra vistalago, il primo bestseller, e altri sedici romanzi “bellanesi” in undici anni, una finale allo Strega e un Bancarella. Ma davvero, Vitali, non si sente mai “stretto” fra i suoi parroci, beghine, regi carabinieri e intrighi di paese? Stavolta, incassando, reagisce: «Già, ogni tanto qualcuno me lo dice: “Tu ormai hai il tuo bel format”… Ma cosa vuol dire, che ho un format? È la mia vita, la vita quotidiana in un paese è ancora il sindaco, il farmacista... Quello che io dico al lettore è: siediti lì che ti racconto una storia che avrà dentro magari qualche mistero e conterrà qualche verità, ma soprattutto ti farà divertire. Con una scrittura che arriva facilmente, perché usa il linguaggio che si ascolta per strada. E però...». Già, c’è un però. Perché anche le critiche irritanti, alla lunga, scavano fessure. «...Però devo dire che un po’ di preoccupazione che Bellano non diventi una prigione mi è venuta. E anche la voglia di raccontare in modo diverso. È una sorpresa che da un paio d’anni tengo nel cassetto, ma con l’editore ne stiamo parlando. Se tutto va bene uscirà in autunno, tempo di rileggerla e sistemare le ultime cose». Un libro diverso? «Diversissimo. Spero che i miei lettori abituali non pensino che mi abbia dato di volta il cervello. All’inizio c’è una patente scaduta, che per il protagonista spalanca una specie di incubo metafisico. Nessun luogo preciso, neanche un prevosto, molto dialogo, finale durissimo. Sarà un azzardo, ma io ci credo molto. E alla peggio, un flop nella vita di un bestseller ci vuole, no? Di storie bellanesi, come dicevo, ne ho comunque una bella scorta…».
Maurizio Bono, la Repubblica 11/5/2014