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 2014  maggio 11 Domenica calendario

“USCIRE DALL’AUSTERITY NON DALLA MONETA UNICA SOLO COSÌ EUROLANDIA PUÒ RIALZARE LA TESTA”

[Intervista a Amartya Sen] –

NEW YORK.
«I cittadini europei non accettano più l’austerity, e in questo l’opinione pubblica si sta mostrando più saggia degli esperti. La situazione sul vostro continente è drammatica, deve cambiare. La soluzione non è uscire dall’euro, ma uscire dalle sue politiche sbagliate. Dovete riscoprire la lezione che l’Europa applicò per risollevarsi dopo la seconda guerra mondiale». Chi parla è probabilmente il più grande economista vivente. In realtà la definizione di economista sta stretta ad Amartya Sen. Questo premio Nobel è forse l’unico che all’università di Harvard ha avuto cattedre sia di economia che di filosofia. E oggi alla vigilia dei suoi 80 anni Harvard gli ha chiesto di organizzare un nuovo corso di studi: in matematica. Nato in India, è il primo ed unico nonamericano ad avere ricevuto la più alta onorificenza degli Stati Uniti, la National Medal for the Humanities, conferita da Barack Obama. In Italia esce il suo ultimo libro, dedicato all’India (“Una gloria incerta”, Mondadori) dove le critiche al suo Paese sono spietate. Ma Sen conosce molto bene la realtà europea e non si sottrae alle domande su di noi.
Mancano due settimane al voto europeo e il malcontento verso l’Unione è ai massimi. L’austerity è diventata un Verbo inflessibile, nonostante le resistenze dei cittadini.
«L’austerity contraddice 250 anni di sviluppo economico. I più grandi pensatori dell’economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso. Per Adam Smith il mercato e il progresso economico consentivano agli individui di conquistare più libertà, e al tempo stesso agli Stati davano risorse per fare meglio il loro mestiere. Oggi l’Unione europea vede gli Stati solo come un costo. David Ricardo ci insegnò l’importanza dei prezzi relativi. Ora l’euro ha imposto la stessa parità di cambio alla Germania e alla Grecia senza preoccuparsi dei rispettivi livelli di prezzo e competitività. Io sono a favore dell’euro. Ma è stato un errore avere una moneta unica senza l’unione del sistema bancario, trascurando il ruolo delle altre istituzioni, e trascurando i prezzi relativi. Infine c’è la lezione di John Maynard Keynes: in periodo di alta disoccupazione e bassa domanda, l’ultima cosa da fare sono i tagli alla spesa pubblica. Non possono che peggiorare la disoccupazione giovanile».
Lei e` stato anche l’ispiratore di una serie di misure alternative al Pil, per esempio l’indice dello “sviluppo umano” (Human Development Index) usato dalle Nazioni Unite. Eppure il Pil continua ad avere un ruolo dominante. La notizia recente del possibile sorpasso Cina-Usa nel Pil, ha fatto il giro del mondo.
«Che la Cina possa superare gli Stati Uniti nel Pil o che l’India possa diventare la terza economia mondiale in base allo stesso criterio, io lo trovo poco significativo. Quello che conta davvero è il benessere delle persone. L’indice dello sviluppo umano, pur imperfetto, include l’istruzione che invece non entra nel Pil. Il Bangladesh ha un reddito pro capite inferiore all’India e tuttavia la speranza di vita è più lunga, la mortalità infantile è inferiore. Perchè l’indice dello sviluppo umano riceve meno attenzione? Perchè la sua importanza è fondamentale per i ceti più poveri. I ricchi, i ceti più benestanti, s’interessano del Pil perchè la crescita economica misurata con quell’indicatore concentra su di loro i massimi benefici».
Qualche anno fa l’India fu la super-star al World Economic Forum. Nel suo libro lei descrive l’India come un subcontinente dove coesistono pezzi di California avanzatissima,
e vaste aree più simili all’Africa sub-sahariana. Lei è severo non solo con i governanti ma anche con i mass media del suo Paese, per aver privilegiato l’aspetto “glamour”, i miliardari del software o le star di Bollywood. Lei denuncia l’assurdità di un Paese dove tutti hanno i telefonini ma non le latrine.
«L’India ha degli ottimi giornali, con un lettorato di massa, perfino più diffusi che in Cina, e tecnologicamente avanzati. Ma se si guarda alla loro capacità di produrre risultati per il progresso del Paese, è deludente. La vita dei tre quarti della popolazione riceve una scarsa attenzione sui media. Narrare le condizioni di vita della maggioranza degli indiani dovrebbe diventare una missione del giornalismo indiano».
Nell’inevitabile paragone India- Cina, lei elenca tanti settori dove il regime autoritario di Pechino ha prodotto risultati migliori. E’ una sconfitta della democrazia?
«Attenzione a non trarre le conclusioni sbagliate. L’autoritarismo cinese ha anche provocato la morte di trenta milioni di persone nella carestia più grave della storia umana, prima di correggere i suoi errori con le riforme economiche che portarono alla crescita degli anni ‘80 e ‘90. I regimi autoritari sottopongono i loro cittadini a una grande incertezza. Nel sistema federalista indiano due Stati ben governati come il Kerala e il Tamil Nadu hanno degli indicatori di sviluppo umano superiori alla Cina. Senza contare i costi che il popolo cinese paga in termini di libertà e diritti umani. L’India è capace di grandi successi quando mobilita le sue energie verso un progetto: lo sradicamento della polio è un esempio. Un altro esempio fu la minaccia di un uragano sei volte più potente di Katrina, che venne affrontato evacuando un milione di persone dalla costa».
Nelle sue opere c’e` sempre una grande attenzione alla donna. In questo nuovo libro lei analizza la reazione dopo il terribile stupro avvenuto nel dicembre 2012: una mobilitazione nazionale ha portato a nuove leggi. Dunque l’India sa cambiare quando vuole?
«Prima di quella terribile vicenda, tantissimi stupri non venivano neppure denunciati. E non puoi risolvere un problema se non ne riconosci neppure l’esistenza. In seguito alle proteste è diventato un tema nazionale, la polizia è stata messa sotto accusa, ora le forze dell’ordine sanno che non possono restare inerti. E tuttavia io noto anche qui una questione di classe. Stupri e molestie sessuali colpiscono anche le donne istruite del ceto medio. Chiunque conosce nel proprio ambiente una donna che è stata molestata, magari dal capufficio. Invece la piaga dei rapimenti di bambine e del racket che le costringe alla prostituzione resta nell’ombra, perchè qui le vittime sono le ragazze più povere. Ancora una volta, la diseguaglianza sociale è una lente che distorce l’informazione e la percezione dell’opinione pubblica».

Federico Rampini, la Repubblica 11/5/2014