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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

LA DETECTIVE DELL’ORRORE SENZA NOME

[Intervista a Cristina Cattaneo] –

Milano.
«Questa è la stanza dove studiamo la materia appena prelevata dai cadaveri. Adesso le faccio vedere i pentoloni...». Sono parole sinistre ma pronunciate con aria serafica. Cristina Cattaneo, antropologa forense di fama internazionale e docente di Medicina legale all’Università di Milano, mi conduce con passo svelto tra i gironi danteschi del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense), che dirige: sei stanze nei sotterranei dell’Istituto di medicina legale Mangiagalli di Milano. «Qui sul tavolo vede un duplice omicidio: il cranio era a pezzi, l’abbiamo pulito e ricostruito per determinare il numero dei colpi. Oggi stiamo anche lavorando su ossa trovate nel cortile di una casa. Dobbiamo datarle per capire se sono recenti, e quindi segno di un possibile reato: lo facciamo verificando se la vittima in vita ha assunto un certo isotopo del radiocarbonio che si è diffuso nell’atmosfera solo dopo la seconda guerra mondiale». Si apre un’altra porta e vedo una stanza con contenitori traboccanti di ossa: «Qui gli studenti lavano e stendono gli scheletri, ma non ci sono scheletri stesi oggi». Quello che per Cristina Cattaneo è routine, per tutti noi è scienza avanzatissima al servizio della cronaca nera più angosciante. È la squadra di medici, entomologi, archeologi e botanici del Labanof che ha trovato i corpi occultati dalle Bestie di Satana, ha lavorato al caso Stefano Cucchi (morto dopo un arresto per detenzione di stupefacenti). L’ultimo enigma affrontato è quello di Yara Gambirasio, la ragazzina rapita e uccisa all’uscita da una palestra del Bergamasco: è probabilmente su uno di questi tavoli che è stato estratto dal corpo riesumato di Giuseppe Guerinoni il Dna che, per la sua vicinanza a quello del killer di Yara, indica che l’assassino è un suo figlio illegittimo. Ma di questo la Cattaneo preferisce non parlare, «perché le indagini sono ancora in corso». Le chiediamo allora di un altro caso, ormai chiuso: quello di Elisa Claps, scomparsa a 16 anni nel 1993. Il suo corpo venne ritrovato nel 2010 nel sottotetto di una chiesa di Potenza. L’assassino, Danilo Restivo, aveva infierito con 13 colpi di arma da taglio. In che modo avete contribuito alla soluzione del caso?
«Siamo arrivati dopo l’ottimo lavoro del collega di Bari Franco Introna. Noi ci siamo occupati di analizzare i capelli trovati sul cadavere: erano stati tagliati, secondo il modus operandi del sospetto omicida, che aveva questa mania, oppure si erano solo spezzati col passare del tempo e il lavoro degli insetti? La domanda era “nuova” e la letteratura scientifica in merito inesistente, così la sfida è stata dimostrare con certezza che si trattava di un taglio e non di altre cause».
Nel caso Claps, come in molti altri, il Dna è stato determinante. Il genetista ha ormai preso il posto del detective?
«Il Dna è uno strumento potentissimo, ma ci ha viziati: abbiamo vissuto un’epoca in cui era la prova regina e molti processi, pur in presenza di indizi molto convincenti, sono crollati per l’assenza della prova del Dna. Oggi ci rendiamo conto che non bisogna esserne schiavi: si possono risolvere casi anche in sua assenza. Come nel caso di una bambina (April Jones, ndr) scomparsa due anni fa nel Galles, uccisa e bruciata da un uomo. Nel camino del pedofilo, c’erano dei frammenti di teca cranica carbonizzata. Estrarre il Dna era impossibile, e l’accusato sosteneva che si trattasse di ossa animali. Noi, chiamati dal giudice inglese, abbiamo studiato al microscopio i mattoncini del tessuto osseo, che negli umani hanno una forma particolare, e abbiamo potuto concludere che il cranio era di un giovane umano».
Ogni anno al Labanof arrivano trenta cadaveri di sconosciuti. E in Italia i morti senza nome sono oltre 1.200, per lo più migranti. Riuscite a restituire loro un’identità?
«Un grosso aiuto verrà dal nuovo database Risc (acronimo per Ricerca scompar si), che abbiamo voluto, insieme a Penelope, l’Associazione nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse, e al programma Chi l’ha visto?. È il primo database europeo che raccoglie i segni utili all’identificazione e permette di incrociare i dati degli scomparsi – cicatrici, otturazioni, ecc. – con quelli dei corpi senza nome. Nel caso dei migranti è più utile del Dna: richiedere il Dna dei parenti dei migranti nei loro Paesi non è facile, e se le autorità locali scoprono i parenti di chi fugge per motivi politici, possono esserci ritorsioni».
Il Labanof è all’avanguardia anche nell’identificazione attraverso foto o video.
«I magistrati ci chiedevano: “C’è questo video, di scarsa qualità, di un rapinatore, e abbiamo un sospettato: sono la stessa persona?”. Così i colleghi Danilo De Angelis, Davide Porta, Pasquale Poppa hanno messo a punto una nuova metodica 3D di scansione del volto che, partendo da una foto del sospetto, permette di ricostruirne l’aspetto sotto angolature a piacere, così lo si può sovrapporre punto per punto a quello ripreso dai video di sorveglianza. Vorremmo fare qualcosa di simile per i morti, con la sfida aggiuntiva del decadimento dei volti».
Dalla serie tv Body of Proof ai bestseller di Patricia Cornwell o Kathy Reichs, le antropologhe forensi sono spesso donne. Anche nella realtà?
«In effetti le ragazze iscritte a medicina legale sono tantissime. Le donne mettono in questo mestiere un grande investimento emotivo. Non perché siano più sensibili dei maschi: anzi, spesso sono i colleghi uomini a mollare il lavoro perché non ce la fanno. Le donne si rivelano più dure, ma anche più accudenti e idealiste. E questo le rende più tenaci nell’affrontare questa materia». Insomma, gli uomini sono più impressionabili...
«Un esempio di vita vissuta: ho avuto un fidanzato che mi ha imposto di portar via da casa tutte le ossa che stavo studiando».
Immagino che non si perderà neppure una puntata di Csi.
«Invece no, telefilm e libri gialli mi stufano. E li trovo frustranti: gli investigatori immaginari risolvono sempre tutto».

Giuliano Aluffi, il Venerdì 9/5/2014