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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

QUANDO IL DIVORZIO È ROBA DA RICCHI


Lui, lei e l’antro. Non l’altro, proprio l’antro, il baratro che si apre quando la crisi diventa al quadrato: quella economica, che picchia su (quasi) tutti, moltiplicata per quella familiare, che secondo l’Istat riguarda due milioni 700 mila persone, tra divorziati e separati. «Ma già sui numeri non ci siamo» puntualizza Gian Ettore Gassani, presidente dell’Ami, l’associazione avvocati matrimonialisti. «I separati italiani sono quattro milioni, ai quali vanno aggiunti quelli che proprio non ce la fanno a dividersi, quelli che – e sono tanti – dovendo scegliere tra far la fame ed essere liberi, fanno finta di tenere unita la famiglia. Ma, attenzione, ci sono due Italie: a Napoli, a Palermo non si rompe tanto facilmente un matrimonio, a Milano o a Torino sì, e lo dicono le cifre. Secondo l’Istat, prendendo in considerazione mille famiglie, a Nord di Roma ci sono 390 separazioni e a Sud 180. Ma nel Meridione, quando si divorzia, è guerra infinita: il giudice deve intervenire pesantemente in una causa su quattro, mentre nel Settentrione in una su due». Il divorzio al tempo della crisi ha un terzo «soggetto forte», oltre a moglie e marito: le banche. Secondo un’indagine Demoskopea condotta per Immobiliare.it, in Italia sono 610 mila (362 mila uomini e 248 mila donne) i separati o divorziati che stanno ancora pagando il mutuo del tetto coniugale. L’anno economicamente più difficile per chi si lascia è il primo, quello della sentenza: in quella fase il 54,7 per cento dei divorziandi con mutuo sta ancora pagando le rate, percentuale che crolla al 5,4 pr cento cinque anni dopo. Significa, tra l’altro, che spesso i soldi per estinguere il debito ci sono o si trovano, ma, al momento di dividere gli stracci, risultano «spariti». Con un’eccezione clamorosa, quella di Roma, dove i ricchi non hanno scampo: il Tribunale della capitale – imitato solo da pochissimi altri – chiede ai coniugi in via di separazione di firmare un atto notorio (quindi, in caso di falso, sono perseguibili) che sintetizzi tutti i redditi, tutti i conti bancari, le partecipazioni azionarie, le macchine, insomma tutto ciò che si possiede e si è posseduto negli ultimi tre anni. Naturalmente ci sono stati molti ricorsi in nome della violazione della privacy ma – fino a quando il primo caso non arriverà in Cassazione – questa è la norma. È evidente che, nel caso che uno dei coniugi rifiuti di sottoscrivere l’atto notorio, il giudice darà più facilmente ragione all’altro, in termini di quantificazione dell’assegno mensile. E se Gassani ricorda che «i ricchi pianificano anche il divorzio, lavorando con i fiscalisti due, tre anni prima di dare l’annuncio al coniuge», la sua collega Raffaella Carugno Cuccia, che tra i clienti annovera anche vip, ribadisce che «a Roma, se ti devi “preparare” al divorzio, devi cominciare a muoverti anche quattro anni prima. Quello del Tribunale di Roma è un escamotage molto efficace: a noi avvocati magari toglierà lavoro, ma obbliga le due parti in causa a trovare un accordo più serio, che tuteli maggiormente la parte più debole». È sempre la donna la parte più debole? «Non necessariamente. Non è vero che tutti si sposano per amore. Accade sempre più spesso che quando il ricchissimo perde il lavoro (o parte del lavoro), poi perda anche la moglie. In alcuni casi il drastico ridimensionamento del livello di vita, dopo quindici, vent’anni di lussi e benessere, porta al disinnamoramento e, di conseguenza, alla separazione. E che i tempi siano cambiati lo dicono anche le cifre: all’inizio a chiedere la separazione erano l’80 per cento degli uomini e il 20 per cento delle donne, oggi siamo metà e metà». Paola Di Nicola è una giudice (si chiama La giudice un suo bel libro, che parla di pari opportunità all’interno della magistratura).
La crisi, almeno, ha portato parità tra i due sessi? «Una premessa: gran parte delle coppie in crisi non si separa più davanti al giudice. Sono numeri che non emergono, ma divorzia solo chi se lo può permettere. Ovviamente il primo tema è quello della casa: anche quando ci sono due stipendi modesti – e figuriamoci con uno solo – due case, bollette raddoppiate, doppio arredamento, doppia macchina, doppi pasti, non ci stanno. Prima, era tutto molto più chiaro: l’uomo aveva uno stipendio sicuro, alla moglie andavano la casa, i figli, l’assegno mensile. Ora che, fortunatamente, gran parte delle donne lavora, si vedono tutti i buchi del welfare: se non hai un posto all’asilo nido, se non ci sono nuove case popolari e quindi la possibilità di accedere tramite una graduatoria, il divorzio diventa un privilegio delle classi sociali medio-alte. Ma il divorzio è una legge sancita dallo Stato ed è lo Stato che dovrebbe consentire il divorzio a tutti i suoi cittadini». Rispetto a questa situazione, mutualismo e associazionismo suonano come parole di un’altra epoca? «Proprio per niente. Sempre più famiglie reagiscono alla crisi organizzandosi e collaborando per riempi re gli spazi lasciati vuoti dal welfare tradizionale e dai drammatici tagli alla scuola» spiega Francesco Camuffo dell’Arci, l’associazione laica, ricreativa e culturale, più grande d’Italia, all’interno della quale è stata svolta una ricerca. «Il dato è stupefacente: in un solo anno di lavoro, il nostro gruppo nazionale Infanzia e Adolescenza ha ricevuto decine di adesioni al proprio Manifesto pedagogico, censendo oltre cento progetti per i minori elaborati grazie alla vecchia idea di mutuo soccorso. Si va dai doposcuola agli “spazi compiti”, dai laboratori creativi ai comitati genitori, dal sostegno all’alfabetizzazione dei figli dei migranti al ripristino di spazi ricreativi, all’apertura di ludoteche, per un vero viaggio nell’Italia che non si arrende: Ravenna, Viterbo, Genova, Terni, Pisa, Langhe, Milano, Firenze... Progetti importantissimi, che di fatto collaborano al mantenimento delle strutture sociali ed evitano l’abbandono dei bambini a sé stessi, in particolare nelle periferie urbane. Ma manca ancora un riconoscimento istituzionale che faciliti la realizzazione di queste iniziative». Colpa della società, colpa delle banche. «Dopo la fine del matrimonio più della metà delle persone coinvolte prova a chiedere un nuovo mutuo» spiega l’indagine di Demoskopea, «ma quasi la metà degli aspiranti si vede respingere la richiesta “per mancanza di coperture certe”. Il 42,2 per cento dei divorziati denuncia una condizione economica “gravemente peggiorata” rispetto a quella che aveva durante il matrimonio, ben il 57,8 per cento dei separati dichiara – un anno dopo la sentenza – di vivere ancora sotto il tetto coniugale. Quando la coppia scoppia, la condizione più frequente è quella dell’affitto di una seconda casa (26,6 per cento) ma ben il 10,9 per cento è costretto a tornare a vivere dei genitori».
Il New York Times ha dedicato un lungo servizio alla «crisi economica di una nuova classe di persone: papà italiani separati che finiscono sulla strada mentre cercano disperatamente di pagare gli alimenti». Sono stati intervistati rappresentanti delle associazioni di padri separati; volontari della Croce Rossa («Prima assistevamo barboni e sbandati, ora sono nettamente in aumento i papà separati che chiedono aiuto, ma non vogliono che l’ex moglie o i figli lo sappiano»); preti di strada («Conosco tantissimi uomini che avevano un salario medio, che ora finisce quasi completamente alla moglie: si vergognano di far vedere ai figli che adesso vivono ospiti delle nostre comunità»). «I più penalizzati in assoluto sono i maschi a reddito fisso, con uno stipendio sui 1.200 euro al mese»: è l’ultima fotografia dell’avvocato Gassani. «Hanno tre possibilità: la Caritas, il ritorno dalla mamma o dormire in macchina. Quelle che in gergo definiamo le separazioni poveracce sono il novanta per cento. E in questo novanta per cento il livello di disperazione è in netto aumento».

Raffaele Niri, il Venerdì 9/5/2014