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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

GUERRE CHE COSTANO UN PATRIMONIO


Beirut. «Antique? Antique?», bisbiglia il giovane egiziano in una stradina di Khan el Khalili, il grande suk al centro del Cairo dove le carovane di turisti, assenti da anni, hanno lasciato il posto ad un vuoto surreale. Qualche tempo fa, un’offerta del genere non avrebbe meritato alcuna attenzione: quello delle patacche destinate agli stranieri è sempre stato un mercato fertile nella capitale egiziana. Ma il trafficante, che sostiene di chiamarsi Kamal, giura di poter offrire autentici papiri, veri scarabei, statuette votive, vasi e legni dell’era dei faraoni. «Non m’importa di che epoca sono» dice con una punta di stizza «né da dove provengono. Mi interessa soltanto che valore hanno, perché, se vendo qualcosa, stasera la mia famiglia mangia, altrimenti continueremo a fare la fame».
Kamal è un pesce piccolo e la sua paccottiglia un rivolo trascurabile del grande saccheggio che, dall’Egitto alla Libia alla Siria, dalle tombe dei Re ai castelli crociati, dai templi romani alle chiese bizantine, sta polverizzando l’inestimabile patrimonio artistico e archeologico del Medio Oriente, memoria stessa del mondo civilizzato. Un saccheggio che non si può attribuire direttamente alla rivoluzione araba – non almeno nel senso di un effetto voluto – ma che l’anarchia seguita alla dissoluzione dei regimi, la corruzione perdurante e l’accresciuta povertà hanno favorito.
Prendiamo, per cominciare, l’Egitto, dove all’inizio della Primavera era sembrato che, in uno slancio di virtù patriottiche, la folla di Piazza Tahrir volesse proteggere l’edificio del Museo nazionale, forse l’esposizione archeologica più ricca al mondo, che si affaccia su un lato della piazza, con uno spontaneo cordone di sicurezza. Durò poco. Il 28 gennaio del 2011 un gruppo di vandali, fra i quali qualche ladro provetto e ben istruito, fecero un buco nel lucernario e penetrarono direttamente nella grande sala al secondo piano. Sparirono una cinquantina di pezzi unici, tra cui la famosa statuetta in oro di Tutankhamen, il faraone bambino sulle spalle della dea Menkaret, un’altra raffigurante il giovane re mentre governa una piroga con un remo stando in piedi, un’altra scultura in cui il padre di Tutankhamen, Akhenaton, regge un vassoio votivo, un meraviglioso gatto in onice, il non meno famoso gruppo scultoreo dello scriba.
Prima che l’ineffabile ministro delle Antichità Zahi Hawass, l’attempato Indiana Jones degli archeologi egiziani, si rendesse conto del danno subito passarono giorni. Poi fece sapere alla comunità degli egittologi che la statua di Akhenaton, ovviamente danneggiata, era stata ritrovata in mezzo all’immondizia raccolta a Piazza Tahrir e lanciò un’improbabile campagna di caccia al tesoro fra i rifiuti. Ma di buona parte del bottino si sono perse le tracce. La polizia, che i rivoluzionari avevano additato come un criminale strumento del regime di Mubarak, era nel frattempo scomparsa dalle strade, dalle piazze e dai siti archeologici egiziani, per timore di ritorsioni. Di contro erano ricomparsi i tombaroli, a Saqqara, ad Abusir e a Luxor.
«Che fare se non c’è più lavoro e non ci sono più turisti?» si chiedeva qualche settimana fa una delle guide di Giza, il sito delle piramidi. «Se sai dove sono le tombe, vai e prendi». Quando i Fratelli musulmani e il presidente eletto Mohammed Morsi sono andati al potere, in pochi mesi hanno dimostrato di tenere in pochissimo conto l’arte, la cultura del passato, il turismo, pur affermando, pubblicamente, il contrario. E quando, il 3 luglio del 2013, Morsi è stato defenestrato con un colpo di mano dei militari, a Minya, 300 chilometri a sud del Cairo, la rabbia degli islamisti s’è scatenata contro il Museo Malawi, dove erano conservati 1.087 reperti di grande valore, fra i quali una piccola statua in marmo della sorella di Tutankhamen, Ankhesom, mentre porge una offerta agli dei con la mano destra. Assieme alla statua di Ankhesom, più di mille oggetti furono portati via, il resto venne ridotto in frantumi. Statue, mummie, sarcofaghi, gioielli, terracotte, arredi funebri. Si salvò soltanto quello che era troppo pesante per essere trasportato a mano e quello che una coraggiosa archeologa, Monica Hanna, riuscì a sottrarre alla furia della folla.
Quattro mesi dopo, alla fine dello scorso dicembre, la scultura di Ankhesom è stata recuperata al Cairo, nel retrobottega di un caffè trasformato in un covo di ricettatori. Un caso raro. Per la gran parte, le refurtive del grande saccheggio prendono sentieri misteriosi. I grandi terminali del traffico sono in Turchia, in Giordania e in Libano. Da qui le opere rubate volano verso le munifiche piazze antiquarie dell’Occidente, dove talvolta compaiono nei cataloghi di raffinate case d’asta, o affiorano dai più discreti commerci della rete.
In Siria, l’altro inestimabile bacino archeologico del Levante, si dice che il traffico di antichità abbia finito con il finanziare la guerra civile, dando così il via ad una spirale devastante. Oggetti e reperti rubati in cambio di Kalashnikov e di esplosivo: sarebbe questo il business del momento che, attraverso alcuni paesini libanesi al confine con la Siria, passerebbe nella valle della Bekaa e da lì si disperderebbe verso Beirut. Non è facile quantificare la devastazione inflitta al patrimonio culturale siriano dalle azioni degli insorti, così come da quelle delle milizie di regime, né i danni effetto dei bombardamenti dell’aviazione. Il governo di Damasco, come sua strategia della comunicazione, tende ad attenuare le conseguenze della guerra su tutti gli aspetti della vita civile. Mentre i ribelli propendono a pensare che, rispetto alle cifre del massacro (150 mila morti e nove milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case), quelli subiti dal patrimonio artistico siriano siano danni marginali. Sicuramente, una parte di quell’immenso bacino, che con i suoi diecimila siti e 35 musei sparsi in tutto il Paese era stato un fiore all’occhiello del regime, è ormai fuori controllo. «Abbiamo ricevuto più di quattromila reperti sequestrati mentre stavano per lasciare il Paese» mi diceva qualche settimana fa a Damasco il capo del Direttorato per le antichità e i musei Maamun Abdel Karim. «Altre migliaia ci sono state inviate dai musei di Hama, Homs, Deir Azzor, dove non ci sono condizioni di sicurezza sufficienti. In generale, cerchiamo di mantenere i contatti con le popolazioni locali attraverso i nostri funzionari. Sappiamo che qua e là ci sono stati dei danni ed anche dei furti, ma non siamo in grado di fare delle stime». Intanto cambia la mappa della Siria archeologica. Le macerie dell’antico minareto di Aleppo e del suk coperto più lungo del mondo fanno ormai parte del nuovo panorama di guerra, come le foto dei carri armati dell’esercito interrati fra le colonne di Palmira, da dove tengono sotto mira i ribelli asserragliati nel castello sovrastante di Ibn Maan. Una voragine di cemento è rimasta al posto di uno splendido mosaico asportato «scientificamente» dalla città seleucide di Apamea. I ladri hanno persino usato un mini bulldozer. Altri dodici mosaici sono spariti nel Nord. Capitelli corinzi sono stati strappati dalle colonne di uno dei tanti fori. I ladri hanno fatto irruzione anche nel museo di Hama. E nei sotterranei del Krak dei Cavalieri, quella che Lawrence d’Arabia definì la più bella fortezza crociata del Levante, i ribelli hanno scavato in cerca di tombe, mentre dal cielo bombardava l’aviazione di Assad. Al Museo di Damasco le visite sono state sospese, tutte le porte sono state blindate e le preziose testimonianze del passato sono state portate via per essere conservate in luoghi sicuri. «L’abbiamo fatto a scopo preventivo» dice il direttore Abdel Karim mentre mi guida lungo un’infilata di saloni deserti e di bacheche vuote, «per evitare che si possa ripetere quello che successe a Bagdad». Già, Bagdad, aprile 2003, l’assalto della folla al Museo archeologico e alla Biblioteca nazionale, l’inizio del grande saccheggio sotto gli occhi indifferenti dei «liberatori» americani.

Alberto Stabile, il Venerdì 9/5/2014