Valeria Fraschetti, pagina99 10/5/2014, 10 maggio 2014
SCIENZA FRUGALE LA VIA INDIANA AL FUTURO LOW COST
Il terremoto che nel 2001 squassò lo stato indiano del Gujarat, uccidendo 20mila persone e lasciandone 400mila senza casa, per l’umile Mansukh Prajapati, vasaio di mestiere, si rivelò una manna dal cielo, o meglio dalla terra. Certo, anche lui perse tutto nel suo villaggio in mezzo al deserto. Ma proprio da quella distruzione balenò fuori l’idea che avrebbe trasformato la sua vita, e quella di molti altri, quando sfogliando il giornale notò, accanto alla foto di un otre in frantumi, una didascalia che recitava con velata ironia: «Frigorifero rotto di un pover’uomo».
Cinque anni e svariate sperimentazioni dopo la sua intuizione, Prajapati creò Mitticool, un frigo di argilla, biodegradabile, che funziona senza elettricità, e quindi anche quando terremoti e simili catastrofi provocano blackout. Non ha bisogno neanche di batterie: l’acqua gocciola giù da un serbatoio, inumidisce le pareti di argilla, evapora e assorbe il calore all’interno del vano per il cibo posto in basso, raffreddandolo. Lì dentro frutta e verdura possono essere conservate anche quattro giorni, il latte tre. Non poco per i 500 milioni di indiani che vivono senza corrente elettrica, come la maggior parte degli abitanti del villaggio di Prajapati. Furono loro i primi acquirenti di un prodotto che, a soli 25 euro, oggi viene venduto in altre zone povere dell’India e in Africa.
Prajapati non ha una laurea in ingegneria, non ha nemmeno terminato la scuola. E la sua invenzione è un caso di jugaad, quell’arte di arrangiarsi creativamente con quel poco che si ha, di improvvisare soluzioni frugali ed economiche spesso nate da necessità e spirito di resilienza. Un’arte spiccatamente indiana, forse anche per retaggi gandhiani, e di cui è un instancabile rabdomante Anil Gupta. «Le menti di chi vive ai margini non sono menti marginali», dice a pagina99 questo professore dell’Indian Institute of Management di Ahmedabad che nel 1988 ha fondato The Honey Bee Network, organizzazione no-profit che individua e favorisce la diffusione di invenzioni che arrivano dal basso, come quella di Prajapati. Gupta sostiene che «le idee più adatte per aiutare a migliorare le vite dei poveri non vengono dalle aziende ma dalle stesse persone in difficoltà».
Con questa convinzione, in 25 anni ha percorso (perlopiù a piedi) 4000 chilometri girando l’India di villaggio in villaggio e dando così vita a un database che oggi contiene oltre 25mila invenzioni. Un’enciclopedia di diavolerie di sconosciuti Archimede. «Alcune opensource, altre in attesa di un investitore che ne scorga il potenziale, altre ancora già prodotte in scala e commercializzate».
Come la “moto-spruzzo”, venuta fuori da un guizzo di Ganesh Dodiya, semianalfabeta, 54 anni, contadino da quando ne aveva 12. Un giorno ha montato dietro alla sua Enfield una barra irroratrice, un ugello e un serbatoio, in maniera tale che la gravità assicurasse l’innesco automatico della pompa. Risultato: la moto-spruzzo in due ore irrorava di pesticidi una porzione del suo terreno agricolo grande quanto quella che copriva in due giorni con un nebulizzatore a mano. Grazie anche a finanziamenti del ministero della Tecnologia, il marchingegno di Dodiya è stato da poco venduto anche a dei contadini del Kenya.
Se la jugaad è un’inclinazione presente in ogni Paese attanagliato da ristrettezze e avversità, in India è però più effervescente che mai. E il merito – per una volta – va anche alle multinazionali. Che, sfruttando falangi di giovani ingegneri a basso costo e intrisi di questa cultura dell’arrangiarsi, stanno aiutando a fare del Subcontinente l’hub mondiale dell’innovazione tecnologica low cost. Non è un caso che il termine “innovazione frugale”, in voga tra gli osservatori del fenomeno, sia stato coniato da Jeff Immelt, boss di General Electrics, una delle prime società a inaugurare a Bangalore, nel 2000, un centro di ricerca e sviluppo (92mila metri quadrati, 4000 dipendenti). Secondo un rapporto Deloitte, oggi sono oltre 300 i colossi che hanno laboratori di ricerca e sviluppo in India; nel 1985 erano solo tre.
All’inizio questi centri facevano solo da supporto ai laboratori nella casa-madre, ma presto sono diventati vivai di soluzioni inedite rivolte ai consumatori locali, e non solo. Una potenzialità di cui alla Tesco, gigante della grande distribuzione, si sono accorti quando gli ingegneri del loro Hindustan Service Center hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo di un sistema che sfrutta sensori termici e algoritmi per calcolare quanti clienti entrano in un supermercato in ogni preciso momento e quando presumibilmente ne usciranno, così da assicurare un numero adeguato di casse aperte. Con il 40% della popolazione che vive in povertà, l’India rappresenta soprattutto un terreno ideale per testare prodotti da esportare in altri Paesi in cui si campa con due dollari al giorno. Così, per esempio, dopo aver lanciato (senza troppa fortuna) l’utilitaria da 2500 dollari, il conglomerato Tata nel 2009 ha partorito Swach, il “purificatore dell’acqua più economico al mondo”. Che per 11 euro, la metà dei concorrenti, viene venduto anche nelle Filippine e in Tailandia. Poiché nel Sud del mondo l’incapacità di distribuire acqua pulita è diffusa quanto quella di garantire elettricità, anche prodotti che sfruttano l’energia solare possono aver grossa fortuna. Il bancomat alimentato dal sole e brevettato dalla Vortex di Chennai è un caso che fa scuola. Consuma quanto una lampadina, 100 watt, contro i 1.000 di uno normale. Resiste anche ai 50 gradi, quindi non ha bisogno di sistemi di raffreddamento. Ha un caricamento dall’alto (invece che dal basso) delle banconote che, sfruttando la gravità, abbassa i consumi. E grazie anche ad altre astuzie, come l’uso del sistema operativo Linux, ha un prezzo (3000 euro) che ha convinto anche banche in Nepal, Gibuti e Madagascar.
È anche grazie all’approccio frugale delle aziende che il numero di brevetti garantiti negli Stati Uniti per innovazioni prodotte in India è passato nel decennio scorso da 50 a oltre 500. E la tendenza sembra inevitabilmente destinata a crescere. Con la complicità della crisi economica occidentale. Che, spingendo sempre più verso prodotti low cost, produce un fenomeno chiamato reverse innovation.
Lo spiega bene C.K. Prahalad, autore della Fortuna alla base della piramide. Sconfiggere la povertà e realizzare profitti: «La logica dominante è che le innovazioni provengono da Usa, Europa e Giappone e si dirigono verso i Paesi poveri.
Oggi la rotta è sempre più spesso invertita». Accade così che un prodotto pensato per raggiungere villaggi remoti di Paesi poveri di soldi, elettricità e ospedali, come l’elettrocardiografo portatile Mac I, made in India da General Electrics, sia oggi usato anche da medici statunitensi. Pesa come una lattina di Coca, impiega un’obliteratrice degli autobus al posto di una moderna stampante e costa un quinto di un suo concorrente tradizionale, 2500 dollari. Anche i basici trattori della Mahindra&Mahindra, pensati per le tasche degli agricoltori del Punjab, stanno diventando popolari fra i contadini amatoriali del Mid-West americano.
«Le persone in Occidente stanno realizzando che hanno vissuto oltre le loro possibilità, l’appiattimento dei tassi di crescita le spinge a ripensare il loro sistema economico. Anche loro saranno costretti a consumare e a innovare frugalmente», ragiona Anil Gupta. A riprova che il trend sia già in corso, il suo Honey Bee Network è finito di recente sotto i radar delle multinazionali: «Ci hanno contattato molto più negli ultimi due anni che nei precedenti venticinque», racconta il professore, che ha da poco incontrato manager di General Electrics, di Panasonic e di altri giganti interessati a sviluppare su larga scala alcune delle invenzioni del suo database. Spirito jugaad che avanza, verso Ovest.