Roberto Zichittella, pagina99 10/5/2014, 10 maggio 2014
PROVE TECNICHE DI GENOCIDIO IN DIRETTA DAL SUD SUDAN
BOR (SUD SUDAN). Quando mancano le parole per descrivere l’orrore, le persone comunicano a gesti. Così, in una polverosa piazza di Bor, in quello che avrebbe la pretesa di essere un bar (quattro stuoie sudicie, qualche tazza di plastica, un pentolino, scatole di tè e caffè) una donna si getta per terra e comincia a muoversi sulle braccia e sulle ginocchia. Avanza così, poi si ferma, gesticola, riprende a muoversi come un gatto. Poi si getta sul fianco, congiunge le mani sotto un orecchio e chiude gli occhi.
La donna si chiama Uell, ha 45 anni e cinque figli. Non è uscita di senno. Ma se lo fosse, sarebbe giustificata, perché sta miniando come è sfuggita a un massacro. Attorno a lei, Uell ha visto morire 16 persone, uccise mentre cercavano riparo dentro una grande chiesa lontano dal centro della città.
La chiesa porta l’insegna altisonante di St. Andrew Cathedral e appartiene a una congregazione protestante. All’esterno è una bassa e anonima costruzione, l’interno invece è variopinto e decorato. Mentre gli assassini uccidevano, Uell è scappata allontanandosi a quattro zampe, poi si è finta morta tra i cadaveri insanguinati. È rimasta per ore così, immobile, prima che il massacro venisse scoperto.
Un’altra donna, Nyatt Uluak è stata meno fortunata. Anche lei, per quanto le è possibile, mima che cosa le è accaduto mentre sta seduta nel suo letto del Juba Teaching Hospital. Non sta molto comoda, perché le manca la gamba sinistra. Nyatta viene da Malakal, altra città teatro di stragi e combattimenti. Quando attorno è cominciato l’inferno, lei si è nascosta in casa. Si è messa sotto il letto. Ma gli uomini armati sono entrati in casa, l’hanno scovata e le hanno sparato alla gamba.
Lei ricorda la scena congiungendo gli indici delle mani e puntandoli verso il moncherino avvolto dalle bende. Ferita devastante, gamba perduta. Ai medici non restava che prendere la sega e amputare.
Racconti dell’orrore come questi se ne raccolgono tanti nel Sud Sudan di oggi, un Paese dove la gente o muore, o scappa, oppure cerca di tirare avanti, nella speranza che anche questa guerra finisca presto. Una guerra civile che non coinvolge solo gli uomini armati, ma anche il resto della popolazione.
Perché lo scontro non è solo politico. C’è la lotta per il potere, per i soldi e per il petrolio. Ma c’è anche un conflitto etnico, che, venti anni dopo la vergogna del Rwanda, fa risuonare nella bocca dei vertici dell’Onu una parola che mette i brividi: genocidio.
Il Sud Sudan è la nazione più giovane del mondo, nata il 9 luglio del 2011, in seguito a un referendum che aveva deciso la separazione dal Sudan. Quel distacco dal grande vicino del nord era arrivato dopo oltre vent’anni di anni di guerra, che hanno provocato milioni di morti, profughi, devastazioni.
C’era un clima di festa a Giuba, capitale del nuovo stato, quel 9 luglio. E c’erano anche grandi attese per un futuro di pace e prosperità, grazie soprattutto al petrolio, che abbonda nel sottosuolo facendo del Sud Sudan il terzo produttore dell’Africa sub-sahariana (anche se poi la commercializzazione del greggio è in mano al Sudan del nord).
I dirigenti politici espressi dal Splm (Sudanese People’s Liberation Movement), però, non sono stati all’altezza. Nella nuova classe dirigente del Paese hanno pesato divisioni etniche, vecchi rancori personali, conflitti ideologici. Subito dopo l’indipendenza sono emersi due uomini forti, entrambi espressione dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan. Salva Kiir Mayardit, di etnia Dinka, vincitore delle elezioni del 2010, ha assunto la carica di presidente. Riek Machar, di etnia Nuer, si è preso la vicepresidenza. La spartizione del potere si è retta su un fragile equilibrio fino al luglio del 2013. Con un decreto presidenziale Kiir ha sciolto il governo e mandato a casa il suo vice, che da quel momento gli ha giurato vendetta. Dopo pochi mesi, a dicembre, è scattata la rivolta di Machar e dei suoi fedelissimi, accusati da Salva Kiir di tentare un colpo di stato.
I primi combattimenti si sono accesi nelle caserme di Giuba, la capitale affacciata sulle rive del Nilo. In un primo tempo gli scontri hanno coinvolto solo uomini in divisa, poi sono degenerati e si sono estesi ad altre aree del Paese. Lo scontro fra le due fazioni si è fatto feroce nelle regioni dell’Upper Nile e di Unity. Lì passa il Nilo e sotto terra c’è il petrolio. Due risorse strategiche, che fanno gola a chi vuole conquistare il potere.
Nel giro di poche settimane il conflitto è diventato anche etnico. Quindi, feroce. Spietato. Dinka contro Nuer. Dall’inizio dell’anno città come Bentiu, Bor e Malakal sono teatro di scontri e massacri che non risparmiano i civili, donne e bambini, i malati (si contano una ventina di assalti agli ospedali). Le forze governative e quelle ribelli conquistano le città, le perdono e poi ancora le riconquistano. E ogni combattimento aggiunge devastazione e sofferenze a una popolazione civile stremata e terrorizzata. Un cessate il fuoco siglato il 23 gennaio è stato subito violato. I morti, ormai, sono migliaia.
A gennaio, nell’ospedale di Bor gli uomini armati, di etnia Nuer, hanno massacrato le persone nei letti, inseguito i medici e gli infermieri. Il dottor Mabuior Nyuong Bior, di etnia Dinka, era nel reparto di ostetricia e ha mollato tutto per mettersi in salvo. «Ho corso per due ore e mezza senza fermarmi, poi mi sono rifugiato nella boscaglia, volevano ucciderci tutti». I morti, a Bor, li hanno messi nei sacchi e gettati nelle fosse comuni. A Malakal e a Bentiu non hanno neppure avuto tempo di seppellirli. «C’erano i morti abbandonati nelle strade, divorati dai cani e dagli avvoltoi» racconta a pagina99 una suora comboniana fuggita da Malakal con un volo dell’Onu.
La guerra civile del Sud Sudan è resa sinistra dai soliti orrori di questi conflitti, come gli stupri e il coinvolgimento dei bambini. Secondo l’Unicef i bambini soldati sarebbero 9.000.
Secondo i dati dell’Onu, gli sfollati interni sono 1, 2 milioni, ma l’emergenza umanitaria ormai riguarda quasi 5 milioni di persone, in un Paese che resta fra i più poveri dell’Africa, con gli indicatori sanitari fra i peggiori al mondo. Le Nazioni Unite hanno sul campo una missione (Unmiss) con 7.700 uomini. Lo scorso dicembre il Consiglio di sicurezza ha deciso di ampliare il contingente a 13.200 caschi blu.
La comunità internazionale però risponde con lentezza, lamenta l’Alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay. Mancano ancora due terzi di questo nuovo contingente. E sul campo ci sono anche i militari ugandesi (li abbiamo visti in quel che resta dell’ospedale di Bor), intervenuti a sostegno di Salva Kiir.
Nei campi attrezzati dall’ Onu hanno trovato rifugio 80.000 sud sudanesi, ma non sempre i campi sono un luogo sicuro. Quello di Bor è stato assalito ad aprile e sono morte 58 persone. Poche settimane prima, nello stesso campo, una epidemia fulminante di morbillo aveva ucciso 150 bambini. «Li abbiamo trasportati con le ruspe fino alle fosse comuni recitando in fretta una preghiera» ci ha detto un casco blu irlandese con gli occhi ancora lucidi per lo strazio.
Un altro massacro c’è stato a metà aprile a Bentiu, capitale dello stato di Unity, dove si concentrano le risorse petrolifere. Dopo vari capovolgimenti di fronte, la città sarebbe tornata sotto i controllo delle forze governative ai primi di maggio, ma 24 ore dopo, i ribelli hanno annunciato di averla riconquistata.
Di fronte all’orrore, proprio nei giorni in cui si commemorava il ventennale del genocidio in Rwanda, si sono mossi i due paesi con i maggiori interessi in Sud Sudan: gli Stati Uniti e la Cina. Il Segretario di Stato John Kerry è volato a Giuba all’inizio di maggio per convincere le parti in lotta, minacciando sanzioni, a rispettare il cessate il fuoco. Sia Kiir che Machar sarebbero disponibili a sedersi attorno a un tavolo in campo neutro, ad Addis Abeba. Un eventuale accordo sarebbe salutato con favore da Pechino. La Cina importa il 77 per cento del greggio sudsudanese, e nei mesi scorsi si è adoperata con discrezione per una tregua.
Il destino del Sud Sudan sembra così appeso alla capacità di persuasione e agli strumenti di pressione delle due superpotenze. Intanto, sulla pista dell’aeroporto di Giuba, protetto dai carri armati e dalle mitragliatrici, continua senza sosta il via vai dei grossi Antonov che portano aiuti e scaricano profughi. Donne, bambini, famiglie, anziani. Stanchi, terrorizzati, affamati. Si tengono stretti i loro poveri fagotti e non sanno che futuro li aspetta.