Maurizio Stefanini, Libero 10/05/2014, 10 maggio 2014
OSLO STA PER FINIRE IL PETROLIO IL SOGNO SCANDINAVO VACILLA
C’era una volta la sindrome olandese: un termine creato nel 1977 dall’Economist e poi formalizzato nel 1982 dagli economisti Warner Max Corden e James Peter Neary, per fotografare il paradosso della crisi del settore manifatturiero nei Paesi Bassi in seguito al boom del gas, dopo la scoperta nel 1959 dell’immenso bacino di Slochteren. Un concetto che ha sia un risvolto più puramente economico, l’apprezzamento del tasso di cambio in seguito all’export di una risorsa particolarmente pregiata, che però rende tutti gli altri export troppo cari; sia un risvolto morale, nel senso che quella risorsa pregiata può impigrire gli abitanti, oltre a creare pericolosi inciuci tra pubblico e privato. C’è stata poi più di recente quella che potremmo definire la sindrome finlandese: un Paese che era venuto a dipendere in maniera altrettanto massiccia da una impresa, quella Nokia che quando era la numero uno al mondo nei cellulari era arrivata a rappresentare un terzo della capitalizzazione in Borsa, un quarto dell’export, il 4% del Pil, 1,1% dell’impiego, da cui il soprannome di Nokialand. Ma dal 2004 in poi Nokia ha poi iniziato a perdere l’appuntamento con i cellulari di terza generazione, nel 2011 il suo peso sul Pil era crollato allo 0,5%, dal 2012 la Finlandia è entrata in recessione stabile, e da ultimo Nokia ha venduto i telefonini a Microsoft, per concentrarsi su software, servizi e broadband, e pur continuando a predicare al resto dell’Eurozona la Finlandia ha visto il suo outlook declassato da Standard & Poor’s da stabile a negativo, anche se per ora la tripla A resta. C’è stata poi la sindrome islandese, quando un’Islanda che aveva abbandonato la pesca per i servizi finanziari nel 2008 ha visto venire giù le sue banche, anche se poi se non altro lo stesso choc è servito in capo a tre anni a guarire il Paese sub-polare da quella che si potrebbe presentare come una peculiare combinazione appunto tra sindrome olandese e finlandese assieme. Ma adesso si diffonde l’allarme anche su una possibile sindrome norvegese. I segnali ormai si moltiplicano: dalla riduzione degli investimenti della società petrolifera di Stato Statoil (e la contastuali diminuzione di produzione dell’1%), alla contrarietà di un importante partito di governo alla «troppo dispendiosa» candidatura per le Olimpiadi invernali del 2022, alla dura vertenza sindacale iniziata dai lavoratori petroliferi. In effetti il boom iniziato con la scoperta degli idrocarburi nel Mare del Nord negli anni ’60 non è finito, ed anzi è proprio lo spettacolo del boom norvegese che ha invogliato i dirimpettai scozzesi all’indipendenza puntando a loro volta sulla loro parte di quelle riserve. Tuttora il petrolio rappresenta il 20% del Pil, la Norvegia è il settimo produttore mondiale, dalla Norvegia arriva anche il 20% del gas consumato nell’Ue, il rating è AAA senza ombre, il reddito procapite è di 100,000 dollari all’anno per una settimana lavorativa di appena 33 ore, ma moltissimi si accontentano del part-time, e il Welfare è talmente generoso che è perfettamente possibile vivere comodamente dei suoi benefici senza lavorare neanche quel minimo. Dal 2012 nel vocabolario nazionale è stato ufficialmente introdotto il verbo «nave», che sta per vivere dell’assistenza dell’agenzia di previdenza sociale Nav. In più, i due fondi sovrani in cui gli utili degli idrocarburi vengono incamerati hanno messo da parte 860 miliardi di dollari. Ma prezzi e salari sono cresciuti a tali livelli che dal 2000 il costo del lavoro per unità è aumentato di sei volte la Germania, costringendo le imprese a delocalizzare. E proprio il raffronto tra i settori in Norvegia e fuori delle stesse imprese dimostra che il livello di assenze per malattia in Norvegia è il doppio. Per ora, il modello regge. Ma prima ancora che gli idrocarburi si esauriscano, basterebbe un calo dei prezzi per far fare alla Norvegia la fine del Venezuela.