Marcello Bussi e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 10/5/2014, 10 maggio 2014
E DRAGHI SFIDÒ L’EURO
Nessuno pensa che il mese prossimo la Bce userà il bazooka del Qe, ovvero l’acquisto di titoli di Stato e di Abs, i bond emessi a fronte di cartolarizzazioni. L’opinione più diffusa è che il 5 giugno il Consiglio direttivo deciderà di tagliare i tassi d’interesse dallo 0,25 allo 0,10%, mossa che potrebbe essere accompagnata da livelli negativi per i tassi sui depositi bancari.
Tenendo ben presente, come ha commentato a caldo Gilles Moec, economista di Deutsche Bank, che, se anche questa volta non farà niente, «la Bce manderà del tutto in frantumi la sua credibilità e innescherà un ulteriore rafforzamento dell’euro», a mente fredda qualche commentatore comincia a dubitare che il semplice taglio dei tassi riesca a essere davvero efficace. Secondo Neil Azous di Rareview Macro, infatti, «solo tassi d’interesse più alti negli Usa possono portare a un vero indebolimento dell’euro». Altri pensano addirittura che la Bce potrebbe restare con le mani in mano anche a giugno. Per Aurelija Augulyte, strategist di Nordea, solo «una revisione al ribasso superiore allo 0,2% delle stime di inflazione» potrebbe innescare una mossa della Bce. Mentre Valentin Marinov di Citigroup ha osservato che «il comunicato della Bce è cambiato poco rispetto ad aprile e Draghi ha fatto capire di aspettarsi una stabilizzazione dell’inflazione ai livelli attuali».
C’è la sensazione che Draghi abbia voluto affidarsi ancora una volta al potere della parola nella speranza di riuscire a indebolire l’euro, consentendogli così di non fare niente anche il mese prossimo.
Cosa che succederebbe, secondo Laurence Boone, economista di Bank of America Merrill Lynch, se l’euro dovesse avvicinarsi a quota 1,36 dollari (venerdì 9 maggio era a 1,376). Draghi è particolarmente preoccupato dall’andamento dell’euro perché la sua forza sta avendo un effetto depressivo sulla crescita economica. Un’indicazione in tal senso è arrivata dai risultati trimestrali annunciati dalle principali società di Eurolandia, che hanno spesso evidenziato utili ridotti in maniera notevole per il forte trend al rialzo della valuta unica europea nell’ultimo anno. Un effetto che va a sommarsi a quello della crisi tra Russia e Ucraina, che sta indebolendo l’attività economica in un’area molto importante per diverse società europee. Non è certo passato inosservato, inoltre, il forte calo degli ordini al settore manifatturiero in Germania, diminuiti a marzo del 2,8% rispetto al mese precedente. Germania che, tra i Paesi di Eurolandia, vanta i rapporti commerciali più stretti con la Russia. La conseguenza di questi trend potrebbe essere quella di ridurre gli investimenti e di spingere sempre più le aziende a delocalizzare la produzione alla ricerca di costi inferiori. Si capisce, quindi, come un calo dell’euro sia importante sia per limitare i rischi di deflazione sia per stimolare ulteriormente la crescita economica, cosa quanto mai necessaria dato il tasso di disoccupazione all’11,8% in Eurolandia.
Secondo le stime dell’Ocse, un calo dell’euro del 10% avrebbe l’effetto di aumentare il pil dello 0,8% e l’inflazione dello 0,7% nei dodici mesi successivi e rispettivamente di un ulteriore 0,9 e 0,8% nell’anno seguente. Una svalutazione del 10%, inoltre, non farebbe che riportare l’euro su valori più in linea con i fondamentali dell’economia. Secondo la stima della parità del potere d’acquisto calcolata dall’Ocse, il tasso di cambio euro/dollaro dovrebbe portarsi sotto quota 1,30.
Bisogna inoltre ricordare che il compito di indebolire la moneta unica potrebbe essere agevolato dalla politica fiscale. Manovre per stimolare la domanda interna, infatti, avrebbero la conseguenza di ridurre il surplus delle partite correnti di Eurolandia, fattore che contribuisce a spingere al rialzo l’euro. Il problema è che la Germania continua a non sentirci da questo orecchio, sostinandosi a vantare i propri avanzi commerciali come un obiettivo da raggiungere per tutti gli Stati di Eurolandia. Dimenticandosi che se così fosse, l’euro non sarebbe più un marco svalutato ma diventerebbe un marco ipervalutato trasformandosi quindi in una palla al piede per la stessa economia tedesca. Ma ormai tutti hanno capito che questo è solo un esercizio retorico di Berlino per fare capire chi comanda davvero. Bisogna infine sottolineare che lo spread dell’Italia (e degli altri Paesi cosiddetti periferici) è sceso sulle aspettative di un Qe della Bce, che prevederebbe appunto l’acquisto di titoli di Stato, o quantomeno di un taglio dei tassi d’interesse che potrebbe aprire la porta a mosse non convenzionali. Se a giugno Draghi lasciasse ancora le bocce ferme ci sarebbe quindi il rischio di un nuovo allargamento dello spread, visto che il rapporto debito pubblico/pil dell’Italia è stimato ancora in aumento. Alzando l’asticella delle aspettative, Draghi sta rischiando molto più della sua reputazione. Sta rischiando le ultime possibilità per l’Italia di avere una ripresa economica decente.
Marcello Bussi e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 10/5/2014