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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

REBUS ITALIA: NON HA MINIERE MA ESPORTA ORO. E POI LO RICOMPRA


ROMA. Riuscite a immaginare una nazione che esporta l’oro pur non avendo miniere? È facile, è l’Italia. Non ha giacimenti sul territorio, ma un’immensa miniera virtuale: i negozi compro-oro. Si stima che ce ne siano da un minimo di 12 mila a un massimo di 38 mila. E la cifra è tanto incerta anche perché nuovi negozi aprono e chiudono in continuazione. Quel che è certo, è che nel 2013 circa 17 milioni di italiani hanno venduto metallo prezioso ai compro-oro, per un totale di circa venti milioni di pezzi. A questi si sono poi aggiunti gli oggetti che i negozi hanno acquistato da altri rivenditori e il materiale proveniente da scarti di lavorazione.
Indovinate dov’è finita gran parte di questa colossale quantità di materiale, fuso in lingotti e pronto per essere lavorato di nuovo? All’estero, naturalmente: circa 200 tonnellate d’oro – tra materiale acquistato dai compro-oro, residui di lavorazione e prodotti invenduti – per un valore globale di circa otto miliardi di euro. Nella maggior parte dei casi l’oro va in Svizzera, che ha assorbito il 75,4 per cento dell’export, pari a 146 tonnellate. A seguire ci sono il Belgio, con 9,9 tonnellate, e – molto distaccati – Regno Unito, Francia, Germania e altri Paesi europei, con quantità inferiori alle due tonnellate ciascuno.
I dati sono emersi dall’audizione di Unioncamere alla Commissione permanente Industria, commercio e turismo al Senato, nel corso della quale il presidente Ferruccio Dardanello ha evidenziato un trend in costante aumento. Effettivamente nel 2008 in corrispondenza con l’inizio della crisi – l’Italia esportava 40,8 tonnellate d’oro. Da quel momento in poi è stata un’escalation inarrestabile, con un raddoppio già nel 2009 (92 tonnellate e mezzo), fino alle circa 200 del 2013. Di pari passo, naturalmente, il valore monetario dell’export, è passato dai 751 milioni del 2008 a circa otto miliardi del 2013. Si parla, sia chiaro, di metallo destinato alla lavorazione, non di gioielli pronti alla vendita.
Che ne è di tutto quest’oro? «Una parte viene acquistata all’estero da imprese orafe che, a loro volta, o producono nuovi gioielli o lo rimettono nuovamente in vendita sotto forma di lingotti ad altre aziende» spiega il presidente di Unioncamere. «C’è poi una quota che viene comprata a scopo di investimento. Infine, ci sono operatori finanziari, con sede in Svizzera, che a fronte di riserve auree emettono titoli rappresentativi dell’oro». Questa dinamica porta a un paradosso, cioè al fatto che i produttori orafi italiani comperino all’estero – invece che in Italia – parte dell’oro necessario alla realizzazione dei loro nuovi gioielli. Potrebbe quindi capitare, per capirci, che un anello che avete al dito in questo momento sia stato realizzato con oro precedentemente esportato dal nostro Paese e successivamente rivendutoci dagli intermediari stranieri.
Su questo fronte Confindustria Orafi ha una proposta: fare in modo che la quota necessaria alla produzione orafa annua italiana (circa 86 tonnellate) sia assicurata – con apposita legge – da metallo «italiano», attingendo direttamente dal mercato dei compro-oro, senza quindi la necessità di acquistarlo in seconda battuta all’estero.
Tutto ciò garantirebbe un risparmio sul prezzo d’acquisto e un conseguente recupero di competitività sia sul mercato interno sia su quello internazionale, quanto mai necessaria visti i dati del comparto orafo-argentiero-gioielliero: dal 2007 a oggi il valore dell’export dei gioielli è calato del 50 per cento, le vendite interne sono diminuite del 38 e, in totale, hanno chiuso 3.400 imprese.