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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

CLAUDIO “IL RACCOGLITORE DI VOTI” TRA CADUTE, GAFFE E RITORNI


Per uno come Claudio Scajola non è mai la prima volta. Finì in galera per settanta giorni nel 1983, al culmine di un’inchiesta condotta da Piercamillo Davigo, con l’accusa di aver maneggiato gli appalti del Casinò di Sanremo. Fu prosciolto sei anni dopo con scuse e inchino «perché il fatto non sussiste». È stato scagionato in fase preliminare dall’ultimo addebito, associazione per delinquere sui lavori del porto di Imperia, e assolto per l’acquisto della casa vista Colosseo, per la quale pagò seicentomila euro e gli altri novecentomila li sborsò un imprenditore, Diego Anemone. «A mia insaputa», disse Scajola inaugurando una delle formule più psichedeliche della politica moderna. E così, secondo i codici morali in vigore da Mani pulite in poi, per cui l’onorabilità corrisponde alla fedina penale, l’ex sindaco di Imperia (due volte), ex parlamentare (quattro volte), ex ministro (tre volte) ed ex coordinatore di Forza Italia era persuaso di essere pronto a risollevarsi di nuovo dal sepolcro da cui sempre si era risollevato. E invece questo ultimo disastro giudiziario - dal quale gli si augura di uscire come è uscito dai precedenti - era stato preceduto dal ghigno rottamatorio della giovane leva berlusconiana, che gli aveva negato la candidatura alle Europee.
Eppure le qualità di Claudio Scajola erano state perfettamente riassunte da uno sprezzante Giorgio Rebuffa: raccattatore di voti. Lui ne andava fiero. Raccontava di avere incontrato Silvio Berlusconi dopo le elezioni amministrative del 1995 vinte con una lista civica a Imperia – la città in cui è nato 66 anni fa – col 35% davanti alla sinistra (33) e al Polo (29). Era una frottola, o forse un innocente infiocchettamento della biografia, perché in realtà era arrivato al secondo posto e impedì il ballottaggio al centrodestra.
Berlusconi lo volle conoscere e arruolare e ci fu un tempo in cui il rottamatore era lui. Si guadagnò simpatie motteggiate non soltanto da Rebuffa, ma da Lucio Colletti («sergente di fureria») e da Saverio Vertone («organizzatore di sagre paesane»). E fra i liquidati e furenti c’era – guarda un po’ – proprio Amedeo Matacena, di cui ora Scajola avrebbe favorito la latitanza. Ma nella vita, si sa, l’importante è vincere e finché Scajola ha vinto andava tutto bene.
Andavano bene anche le classiche genuflessioni a sua maestà che portarono Scajola a definire Berlusconi «il Sole a cui tutti si vogliono scaldare». Berlusconi, disse, è uno che «si fa amare» e come lui «ne nasce uno ogni secolo». Il Novecento fece generosamente eccezione, insegnava la dottrina-Scajola, e sfornò un secondo leader all’altezza: John Fitzgerald Kennedy.
L’aneddoto fondamentale per comprendere l’uomo venne consegnato da lui medesimo in un’intervista concessa a Claudio Sabelli Fioretti. Era il 2000, si era ad Arcore, e il grande capo se ne venne fuori con uno dei suoi cavalli di battaglia: a sinistra non hanno mai lavorato e nemmeno studiato, e infatti i comunisti laureati sono quattro gatti. Scajola, a cui mancavano tre esami per concludere Giurisprudenza, si morsicò la lingua e, tornato in Liguria, si mise sotto. Aveva cinquantadue anni e un partito da tirare avanti, ma in qualche mese approdò al titolo di dottore. Spiegava il metodo - compreso il trionfo alle Politiche del 2001 - con la passione per gli orologi di cui la casa trabocca. Ne annotava il numero e il funzionamento su un taccuino e trascorreva sincronizzandoli le poche ore libere: «Li carico, li regolo e sposto il pendolo per cercare di arrivare pian piano alla perfezione. La soddisfazione di sentirli suonare tutti alla stessa ora ti ripaga delle fatiche».
Lui fu ripagato col ministero dell’Interno e pronti via arrivò il G8 di Genova, con la morte di Carlo Giuliani e la mattanza della Diaz. Nessuno gliene chiese conto, ma quando circolò la definizione data di Marco Biagi («rompicoglioni») gli toccò di dimettersi. Ma aveva tempra e una storia: era secondogenito del fondatore della Dc di Imperia; era stato battezzato in braccio a Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide; era rimasto orfano del padre a quattordici anni, e per un anno era rimasto sulle sue carte e finì con l’appassionarsi di politica. Si risollevò. ministro dell’Attuazione del programma (un’aspirina), poi ministro dello Sviluppo economico.
Il suo problema adesso è un altro, ma per molto tempo, come si sarà intuito, è stata la linguaccia. Nel 2008, inaugurando la centrale elettrica di Civitavecchia, disse: «Dopo tanti sacrifici, anni di lavoro e qualche vita umana è stato possibile costruire questa modernissima centrale...». Più o meno quello che deve aver detto Tito al vernissage del Colosseo, che molti anni più tardi Scajola avrebbe ammirato dalla sua casa di via del Fagutale.

Mattia Feltri, La Stampa 9/5/2014