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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

TAGLIO DEI TASSI O ACQUISTO DI TITOLI. SUPERMARIO E I PALETTI DI BERLINO


È ufficiale: la Bce agirà a giugno. Mario Draghi vuole aspettare le prossime stime della Bce per l’economia dell’eurozona, poi si muoverà. Sull’andamento dell’inflazione il «consensus», cioè la maggioranza dei membri del consiglio direttivo, «è insoddisfatto».
Ma il «consensus» vuol dire, appunto, che il timore di una deflazione ancora non ha contagiato tutti. E il presidente della Bce, mediatore proverbiale, vuole sempre tenere insieme tutti, tedeschi compresi. Perciò aspetterà che i suoi economisti certifichino che l’andamento dei prezzi al consumo sta rallentando pericolosamente – anche la Commissione europea ha appena rivisto le previsioni al ribasso, è possibile che lo facciano anche gli economisti di Francoforte. Soprattutto, ai piani alti dell’Eurotower stanno elaborando misure straordinarie che non indispettiscano i falchi, Jens Weidmann in testa. A cominciare delle ipotesi sul quantitative easing, sull’acquisto massiccio di titoli.
L’opzione sulla quale si sta riflettendo somiglia poco a quella scelta dalla Fed, che con il suo «Qe» ha soprattutto pulito un settore pieno di spazzatura finanziaria come quello immobiliare. La Bce, al contrario, sta riflettendo sulla possibilità di comprare covered bond o titoli che abbiano comunque con una «seniority» alta e che avrebbero la priorità sugli altri, nel caso di guai. Il principio opposto, dunque: acquisterebbe in massa titoli più sicuri. Draghi vuole prevenire la classica obiezione tedesca, già utilizzata spesso durante i programmi di acquisti dei titoli di Stato, che lamentava la trasformazione della Bce in una «bad bank». L’obiettivo, inoltre, sarebbe quello di offrire liquidità ad istituti di credito che non siano in difficoltà, con la speranza che li girino, finalmente, alle imprese.
Tra l’altro, ai vertici dell’Eurotower c’è una certa irritazione per la famosa fuga di notizie sui 1.000 miliardi di euro che Francoforte sarebbe pronta a spendere. Secondo una fonte, i calcoli del dipartimento guidato da un brillante italiano, Massimo Rostagno, erano rovesciati. Per ottenere un aumento dell’inflazione in una forbice compresa tra 0,2-0,8%, quanti soldi servono? Questo il punto di partenza. Una risposta era: 1.000 miliardi, ma sarebbe stata da sottoporre al consiglio direttivo, oltretutto ancora priva di dettagli. Da qui a dire che l’Eurotower è pronta a spendere 1.000 miliardi per l’acquisto massiccio dei titoli, ce ne passa. Tra una simulazione economica e una policy adottata da 18 banche centrali, ci sono spesso abissi.
Un’obiezione potrebbe essere: perché non evitare tout court la resistenza dei nordici e approvare una nuova iniezione di liquidità con scadenze lunghe? Primo, è il ragionamento ai piani alti di Francoforte, ben due operazioni del genere hanno dimostrato che la liquidità è servita soprattutto per fare «carry trade», per acquistare titoli di Paesi deboli e lucrare sulla differenza enorme dei tassi. Non c’è stato il «funding for lending», l’offrire liquidità perché le banche la prestino alle imprese che la Bce auspicava. Secondo, un Qe su titoli di qualità è preferibile perché ci sarebbe una selezione all’ingresso delle banche più in salute, con probabilità maggiori di girare la liquidità alle aziende.
Nell’armamentario di Francoforte ci sono poi altri strumenti, e Draghi li ha elencati spesso: un ulteriore taglio dei tassi dall’attuale 0,25%, persino una soluzione «alla danese», un tasso negativo dei rendimenti che le banche pagano per parcheggiare la loro liquidità presso la Bce. Ma anche un sostegno della Bce ad un eventuale rivitalizzazione del mercato delle cartolarizzazioni Abs.
C’è infine un tema su cui insistono molto i francesi: perché la Bce non interviene direttamente sul tasso di cambio? In fondo, non è vietato dai Trattati e si è fatto anche di recente. Ad esempio dopo il disastro di Fukushima, d’accordo con la Banca centrale giapponese, per evitare un collasso dello yen. Allora fu, appunto, un’azione concordata tra banche centrali. E se l’euro finisce spesso per fare il vaso di coccio tra valute, è perché è difficile mettere insieme 18 Paesi, ma anche perché gli americani non sono certo disposti ad ammettere che il dollaro è troppo debole.

Tonia Mastrobuoni, La Stampa 9/5/2014