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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

IL COMPAGNO G CI RICASCA E BRUCIA VENT’ANNI DI RETICENZA COMUNISTA

Le tangenti non erano tangenti, sosteneva a testa alta il Compagno G, l’uomo di marmo con l’aria furba del pirata buono che nel ’93 si fece il carcere senza fiatare e si prese la colpa di tutto pur di salvare le Botteghe Oscure dall’infamia della corruzione. «E comunque quella è storia di un altro tempo » diceva fino all’altro ieri, orgoglioso del suo prezioso silenzio. E invece la storia è sempre la stessa, perché i magistrati di Milano lo hanno mandato di nuovo in cella, e di nuovo per una storiaccia di tangenti e di appalti truccati per l’Expo. La parabola di Primo Greganti che si chiama così perché ha un fratello gemello, nato un minuto dopo di lui: Secondo - si chiude con un ritorno al passato che distrugge in un attimo 21 anni di onorata reticenza, un percorso penitenziale compiuto senza un solo lamento, concedendosi alla fine prima ancora di tagliare il traguardo dei settant’anni - persino il diritto di dare patenti di moralità: «Vedo che pure nel Partito democratico l’etica è diminuita...» dichiarò nel 2008, guardandosi intorno.
Fino a ieri era rimasto «il compagno che non parla», capace di spiegare tutto senza accusare nessuno.
Il manager socialista della Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, lo accusava di aver ricevuto 621 milioni per conto del Pds, la metà di una tangente che doveva essere di un miliardo e 200 milioni? E lui spiegava tranquillamente che il partito non c’entrava nulla. Il pm Antonio Di Pietro scopriva che quei soldi erano passati per un suo conto in Svizzera (nome malaugurante: “Gabbietta”)? E lui sosteneva senza scomporsi che gli erano serviti per acquistare degli appartamenti. La polizia lo fermava in autostrada con un miliardo in contanti nel bagagliaio? E lui dichiarava candidamente che era l’anticipo incassato per la vendita della sede romana degli Editori Riuniti. Si scopriva che aveva riportato in Italia dalla Svizzera una tangente di 260 milioni versata da un’azienda Fiat all’uomo che prima di lui teneva i conti del Pci torinese? E lui rispondeva che pensava che si trattasse «dell’eredità di un compagno morto all’estero».
Non tutti gli credevano, anche dentro il Pds, anche se l’unico che mise nero su bianco la sua perplessità fu Michele Serra: «Un comunista con i soldi in Svizzera - scrisse - è come uno scozzese prodigo o un installatore di semafori daltonico». Neanche il pool di Mani Pulite si arrese. «Verosimilmente - disse il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio - dobbiamo pensare che i soldi attraverso Primo Greganti siano andati al Pci. Sennò Greganti sarà stato un gran figlio di buona donna che s’è speso i quattrini alle Folies Bergères, in donne e champagne». La procura indagò il tesoriere nazionale delle Botteghe Oscure Marcello Stefanini e fece arrestare il responsabile del patrimonio immobiliare del partito, Marco Fredda, ma alla fine dovette arrendersi: non c’erano prove, contro il Pds. «Occhetto poteva non sapere» ripetè fino all’ultimo Greganti. Così l’unico che si fece il carcere fu lui, il compagno G, che per i giudici era «il fiduciario del Pci pronto a mettere a disposizione i propri conti personali per esigenze lecite e illecite del partito », e fu condannato a tre anni e sette mesi per finanziamento illecito. Seguirono il patteggiamento, lo sconto di pena, l’affidamento ai servizi sociali e a poco a poco anche la riabilitazione politica, con gli applausi dei compagni alla presentazione del suo libro di memorie: «Scusate il ritardo».
Nel partito, lui c’era arrivato a vent’anni, quando il padre trasferì la famiglia dalle campagne di Jesi nella Torino del boom dell’auto. Operaio Fiat alle Ferriere, Primo è un militante serio, coscienzioso e soprattutto affidabile, e passa presto dal sindacato al Pci: segretario di sezione, poi consigliere comunale a Moncalieri, quindi - a 37 anni - responsabile amministrativo della federazione di Torino. Tira su una radio, una tv, un quindicinale e soprattutto si inventa l’Eipu, una società che raccoglie pubblicità per le feste dell’Unità. Così comincia a fare la spola tra Torino e Roma, frequenta i manager delle coop rosse e raccoglie soldi per il partito: tanti.
Dopo l’arresto, racconterà a Giampaolo Pansa per L’Espresso : «Io sono stato un leale e onesto militante e dirigente di partito fino al 1989. Ma se ripenso al lavoro che ho svolto nel Pci dico che sono orgoglioso di quello che ho fatto. E rifarei tutto quello che ho fatto. Sono tutte cose legittime. Non c’è motivo per pentirsene». E ancora: «Io sono diverso dagli squali di Tangentopoli. Io non ho rubato. Io non ho spolpato l’Italia».
Molti gli avevano creduto. E qualcuno si era chiesto se non avesse ragione, sei anni fa, quando dichiarò ad Aldo Cazzullo del Corriere che la corruzione era aumentata, non diminuita: «Non siamo nel ’93: siamo messi molto peggio». Adesso sappiamo che lo diceva con cognizione di causa.