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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

ANDRE AGASSI


Ha le spalle curve e le gambe magrissime, da quel sublime ballerino dei courts che è stato per vent’anni ruggenti di tennis, anfetamine, tupè e demoni interiori. Jeans neri, T-shirt nera. Cammina gobbo, avanzando a passettini, le punte dei piedi verso l’interno per colpa della spondilolistesi (una vertebra ribelle come il suo padrone), in mano una tanica d’acqua (no, non è l’acqua di Gil), lo sguardo conficcato in un orizzonte indefinito. L’implacabile sole del Nevada si riflette su un cranio bianco e lucido, regalandogli un’aria spaesata da alieno metropolitano, perennemente a disagio. Solleva gli occhiali. Sotto, due occhi tristi da bambino mai nato, resi ambigui da un filo di matita nera. Stringe la mano con delicatezza femminea. Il sorriso è puro miele. «Piacere, Andre».
Di Las Vegas, a 44 anni, Andre Kirk Agassi è il figlio prediletto, partito ragazzino alla ricerca dell’amore di papà Mike, immolatosi al tennis («Lo odio con tutto il cuore eppure contino a giocare, per quanto voglia fermarmi non ci riesco…») e tornato a casa anziano, perché l’andatura di Agassi oggi — 8 Slam, un oro olimpico, 101 settimane da numero 1, una portentosa biografia, «Open», ancora in classifica, due mogli (Brooke Shields e Steffi Graf, al netto della Streisand) e due figli (Jaden Gil, 12 anni, e Jazz Elle, 10) dopo — è quella di un vecchio. Andre, quanti anni ti senti addosso? «Oh be’, dipende dai giorni. Non va malaccio, tutto sommato. Mi capita ancora di dormire sul pavimento per i dolori alla schiena. Certo è come se avessi già attraversato tre vite e quando una donna mi passa accanto senza notarmi, mi sento decrepito!» .
A scuola
È venuto a farsi un giro a scuola, la Andre Agassi Academy, per vedersi riflesso negli sguardi dei giovani disagiati che ne ignorano trascorsi e blasone: «Avranno l’istruzione che mi è mancata. Mi sono sempre chiesto cosa sarei diventato senza tennis. Questi ragazzi sono un libro aperto, molto più di quanto non lo fossi io alla loro età, quando mio padre mi spediva in campo a sfidare il drago sparapalle e io pensavo di non avere altra scelta». Più forte, Andre, tira più forte. «Poter scrivere il proprio futuro da zero è un diritto, e un privilegio».
Ha colpito 2.500 palle al giorno, 17.500 la settimana, un milione all’anno. Eppure ha ancora voglia di numeri. «Nella mia scuola entrano a 4 anni ed escono a 18. Il 75% si diploma e trova lavoro. Il loro motto è il mio: believe , credici». Al centro del campus da 40 milioni di dollari (Longines, di cui Agassi è ambasciatore, tra i generosi contribuenti) c’è un leccio, simbolo di speranza. Sui muri foto di Mandela, Gandhi, Roosevelt, Madre Teresa e il discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial, 28 agosto 1963. We are free, at last . Siamo liberi, finalmente. E tu, cowboy, sei ancora prigioniero del passato? «Sono il solito Andre: un cantiere aperto. Non oserei mai definire me stesso. Sono sempre stato allergico alle etichette». Entra in classe, una qualsiasi. Gli alunni scattano in piedi e recitano in coro il Codice del Rispetto: dell’autorità, degli altri, di se stessi. «Ho promesso loro che se lo terranno a mente, e nel cuore, faranno strada» .
L’illusionista
Di tutti gli illusionisti che infestano questa assurda città di battone, bische e neon, Agassi è quello che ha meno trucchi in tasca. Solo chi ci è nato, può scegliere di vivere a Las Vegas. Ma solo qui, in mezzo al nulla, con le unghie affondate nel deserto da cui lo estirparono, Agassi si sente vagamente in pace. Si alza all’alba, quando Steffi è già in piedi. Previene la domanda tendendo le braccia glabre davanti a sé. «No. Di quei giorni non mi mancano né l’adrenalina né i capelli. Rasarmi è una delle cose migliori che ho fatto in vita mia. Oggi mi batto per altri progetti: la fondazione, la scuola, i figli, il matrimonio. Ogni giorno è una sfida per essere un uomo migliore, senza i drammi del tennis. Molto meglio, no?» sospira. I trofei sono nella palestra di Gil Reyes, storico preparatore, insostituibile figura paterna. «Ogni tanto ci giocano i bambini. Io no, non li riprendo mai in mano…». Né scende in campo con frequenza. L’ultima volta che lui e Steffi hanno impugnato le racchette per andare al parco pubblico in fondo alla strada, ha piovuto. «Nel deserto!» ride. «Eppure il ricordo più felice legato al tennis è la prima volta che palleggiai con la mia futura moglie, nel lontano ‘99». Il capitolo più leggero del libro, dentro 500 pagine di fantasmi. Le mie prigioni (a cielo aperto), avrebbe potuto intitolarlo. Lo Slam più speciale? «Il primo». Wimbledon 1992. Quella finale contro Goran Ivanisevic la sbranò a trecento all’ora, divorato dall’urgenza di mettere fine alla sofferenza. Anche Marco Pantani scattava in salita per abbreviare lo strazio, sai Andre. «Era una strategia per mettere in difficoltà gli avversari. Serviva a monetizzare lo sforzo, a marcare la differenza. Nel tennis il punto più importante è sempre il prossimo. Fare bene, e velocemente, il mio lavoro mi faceva sentire a posto». Racconta che ogni tanto parla ancora da solo, immergendosi in quei soliloqui per i quali divenne celebre insieme al pressing da fondocampo. Gli dei del tennis non gli sono sempre stati accanto, ma da buon scommettitore Agassi ha saputo farseli amici con le fiches del talento e della fortuna. Sei nato con un ferro di cavallo su per il culo, gli ricordava quotidianamente papà Mike, che con Andre ha sublimato le frustrazioni da pugile mancato, spedendo in analisi il figliolo più piccolo, quello baciato, ahilui, dalla magia di saper colpire la pallina mille anni luce prima di tutti gli altri.
Il perdono
Diventare padre ti ha aiutato a capire il tuo, e perdonarlo? Sceglie le parole con cura, come ne dipendesse il suo destino. «Non mi sento di doverlo perdonare per ciò che mi ha fatto, ma per quello che non fece: lasciarmi libero di andare per la mia strada. Il perdono non sarebbe stato possibile se prima non avessi capito me stesso. Solo allora ho guardato papà con occhi diversi».
In questa storia di delitti e castighi, successo e redenzione, una parte importante ce l’hanno quelli blu e di ghiaccio di Steffi Graf, troppo simile a lui per non affascinarlo, anch’essa figlia di un padre despota, poi in fuga dal tennis, infine sposa del suo omologo maschio, questo Pierrot made in Usa con una lacrima di kajal sulla guancia. Alleati contro il fato, saldati per l’eternità. «Le persone sono ciò che fanno, non ciò che dicono. Stefanie è chiara, determinata, onesta. Vive con armonia. Non l’ho mai vista derogare dai valori in cui crede. Per me i suoi sorrisi sono un’emozione potente ancora oggi. Ogni cosa che fa e che dice ha la mia totale attenzione». Una musa, più che una sposa. Più thanatos che eros .
Si accendono le mille luci della Strip. Andre Kirk Agassi si dilegua con i suoi misteri. «Tra cent’anni forse si ricorderanno di me come quello che più di ogni altro ha cambiato il tennis. In meglio». O viceversa, suo malgrado, ancora non gli è chiaro.