Stefano Rodi, Sette 9/5/2014, 9 maggio 2014
TUTTI IN GIRO PER INSEGUIRE LA STORIA
Il Giro d’Italia non è più solo ciclismo, è una storia che va al di là dello sport e racconta un Paese.
Per capirlo bisogna partire dall’inizio e provare a immaginarsi di essere a Milano alle 2.53 nella notte del 13 maggio 1909. In piazzale Loreto, gremita di gente: folla vociante nel buio, bar aperti e stracolmi, anche nei dintorni. In quel momento venne dato il via alla prima tappa: Milano-Bologna, 397 km, un serpente velenoso di strade sterrate e buche. Sono 127 corridori che partono nella notte verso questa follia, con bici senza cambio e a scatto fisso: si deve pedalare sempre, anche in discesa, come coi tricicli dei bambini. Dopo 14 ore, 6 minuti e 15 secondi compare per primo Dario Beni. A Milano invece, il 30 maggio, dopo altre sette tappe, la più lunga Bari-L’Aquila di 428 km, per un totale di 2.447 chilometri, arriva vincitore Luigi Ganna, professione muratore. Ha pedalato per un totale di 89 ore, 48 minuti e 14 secondi, alla media di 27,2 km all’ora. Armando Cougnet, direttore della Gazzetta dello Sport, giornale organizzatore del Giro d’Italia, lo avvicina e gli chiede subito cosa sente, che emozioni prova. La risposta «Me brusa el cü» entra nella storia. Il premio di Ganna è 5.325 lire, più del doppio di quello che guadagnava un impiegato statale in un anno. Da allora parte un filo lungo centinaia di migliaia di chilometri che srotola vittorie e sconfitte, storie di campioni e, appunto, di un Paese, che arriva fino alle Tre Cime di Lavaredo dove lo scorso anno, sotto una fitta nevicata, c’è stato il trionfo di Vincenzo Nibali. Un televisore su tre, quel giorno, nelle case degli italiani, stava inquadrando quella salita.
Mezzo miliardo di spettatori. Il Giro è un patrimonio nazionale, ma piace a tutto il mondo: lo scorso anno è stato trasmesso in 174 nazioni ed è stato visto da 591 milioni di telespettatori. È un avvenimento mondiale: per 11 volte è partito dall’estero. Quest’anno tocca all’Irlanda, tre tappe prima di volare in Italia. Si parte da Belfast, si arriva a Trieste: 3.449 chilometri, divisi in 21 giornate. Finale in Friuli-Venezia Giulia, con il traguardo sul monte Zoncolan, che fa paura solo a pronunciarlo, nella penultima tappa: una salita di 10,5 km con una pendenza media dell’11%. Poi, domenica 1° giugno passerella finale, fino a Trieste, una delle tante città che ha intrecciato la sua storia con quella del Giro. Quello del 1946 è battezzato “il Giro della Rinascita”: 30 giugno, tappa Rovigo-Trieste, ancora separata dalla madre patria. A Pieris, a 40 km dall’arrivo, un gruppo di attivisti slavi, che vogliono l’annessione alla Jugoslavia di Tito, blocca la corsa: barricate, lancio di sassi, colpi d’arma da fuoco. Un ciclista, Egidio Marangoni, resta ferito gravemente. Gira la voce che è morto. I corridori, compresi Coppi e Bartali, si buttano nei fossi a fianco della strada. Gli assalitori poi si ritirano e i ciclisti non sanno più che fare. La maggior parte teme nuovi agguati. Sono scampati da poco alla guerra, si sentono fessi a farsi uccidere quando è appena finita. Ma un gruppo, capitanato dal triestino Giordano Cottur, non molla e la squadra della Wilier Triestina (dove Wilier sta per “W l’Italia libera e redenta”) sta con lui. Alla fine sono in 17 che non ne vogliono sapere di smettere lì e succede l’incredibile. Mentre gli altri vanno a Udine, da dove sarebbe poi partita la tappa successiva, i 17 irriducibili e le loro 17 bici vengono caricati su un camion dell’esercito americano che li trasporta fino a Barcola, sul lungomare all’estremità di Trieste, a sette km dallo stadio dove la folla attende l’arrivo. Cottur vince la volata a rango compatto ed è portato in trionfo dalla folla, davanti allo striscione: «Trieste sportiva porge il benvenuto ai “girini”».
Il corridore triestino, molti anni dopo, quando ormai la città era tornata nei confini nazionali, ricordò quello come «un giorno meraviglioso», aggiungendo di aver visto decine di persone in lacrime tra la folla che lo portava in spalla: «Il Giro significava l’Italia e Trieste voleva essere italiana». Se il ciclismo non fa la storia, l’aiuta. Come quando Bartali vinse il Tour nel 1948 e aiutò a distrarre l’Italia da una tensione alle soglie della guerra civile, dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio. Nei suoi primi anni il Giro d’Italia è costellato da vicende che rilette adesso suonano davvero strane, come quando nel 1930 gli organizzatori decisero di pagare il premio di 22.500 lire (più o meno il doppio di quello che guadagnava in un anno un impiegato dello Stato) ad Alfredo Binda, come se avesse vinto, purché stesse a casa. Era troppo più forte degli altri e la sua partecipazione avrebbe tolto interesse alla gara: aveva vinto le edizioni del 1925, e poi a fila ’27, ’28 e ’29. Altri tempi: l’han pagato per non farlo correre.
Tornando ai giorni nostri, al via quest’anno non ci sarà Nibali, che ha deciso di giocare le sue carte al Tour de France. I destini italiani restano così assegnati a un drappello composto da Pozzovivo, Scarponi, Aru e Pellizzotti, che dovranno vedersela con Cadel Evans, Jaoquin Rodriguez e Quintana, i favoriti tra gli stranieri. Il percorso, che ha ridotto i trasferimenti da una tappa all’altraper non sfiancare atleti che di fatica ne fanno già tanta sui pedali, è uno dei tracciati più spettacolari di sempre, con dieci arrivi in salita, cinque in alta montagna. Non ce ne sono mai stati così tanti. Tra questi ce ne sono alcuni inediti per il Giro: quello di Montecassino, per esempio. Dopo 70 anni dalla celebre battaglia la sesta tappa si chiuderà lì, con otto km al 6% di pendenza, a confermare che storia del Giro e storia d’Italia corrono proprio sulle stesse strade.
Quest’anno, a margine della gara, per iniziativa della società Autostrade, in sei tappe ci sarà la premiazione di “Poliziotti eroi”, storie selezionate dalla Polizia stradale, relative ad atti compiuti dalle pattuglie che vigilano sulla sicurezza degli automobilisti.