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 2014  aprile 19 Sabato calendario

IL GIARDINIERE DI CALVINO «NELLA MIA GIUNGLA LA PERFEZIONE DEL CAOS»


Il nuovo giardiniere era un ragazzo coi capelli lunghi...». Libereso Guglielmi a 89 anni li porta ancora così come Italo Calvino li descrisse in «Un pomeriggio, Adamo». E, ancora, vive tra e per le sue piante, come gli insegnò Mario, il padre dello scrittore nato a Cuba ma cresciuto sulla Riviera di Ponente, quando a 15 anni di età gli assegnò la prima borsa di studio italiana per lavorare, a 333 lire al mese, alla Stazione Sperimentale per la floricoltura di Sanremo che si occupava di ricerca per l’adattamento e l’acclimatazione delle specie tropicali. La storia di Libereso, soprannominato Tarzan perché da piccolo si gettava da un albero all’altro, suturandosi le ferite con ago e filo a mani nude, girava senza scarpe e senza maglietta per il paese dei fiori, è già di per sé un romanzo che Ippolito Pizzetti ha raccontato nel libro «Libereso, il giardiniere di Calvino» (edizioni Orme/Tarka).
Dall’infanzia trascorsa come «fratello aggiunto» di Italo, «Siamo cresciuti praticamente insieme, lui aveva sempre la testa tra le nuvole, era schivo, non parlava mai, era quasi scorbutico. Ogni tanto aveva però sprazzi inaspettati e mi chiedeva il nome di questo fiore e di quella pianta, o voleva che gli insegnassi a fare le trappole per la formica argentina...», al padre vero, vegetariano, ebanista ed anarchico, che diede lo stesso nome a entrambi i figli. Dalle sterlizie e orchidee impiantate nel Sud Italia all’esperienza di capo giardiniere al giardino botanico Myddelton House dell’Università di Londra: «ottenni il posto perché, anche se non sapevo una parola in inglese, conoscevo a memoria tutti nomi latini delle piante», sino ai viaggi alla ricerca di semi nel deserto indiano del Thar, tra gli animisti delle isole di Celebes, i racconti di Libereso destano meraviglia. Soprattutto se «il vichingo di mare», altro suo soprannome, te li narra nella sua «casa giungla» di Sanremo.
Il più salgariano giardiniere italiano vivente, infatti, non potrebbe che vivere in una piccola foresta invasa da ellebori fioriti di giallo, rosa e crema, banani, felci antartiche, spettinate tillandsie del Centro America. «Io non tocco niente, lascio che ogni pianta viva, cresca in piena libertà. Le rispetto. Come le persone, hanno bisogno solo di luce e di aria. Ognuno di noi dovrebbe avere un giardino disordinato. Questa era la casa di mia madre, ha più di un secolo — spiega Libereso, seduto sulla panchina in marmo a bordo dello stagno di ninfee e pesci rossi —, qui ogni pianta ha una sua storia, non c’è una fine nel giardino. È come un’enciclopedia: scopri sempre qualcosa di nuovo e quando pensi di sapere, ecco un nuovo innesto, un fiore inatteso, così ti accorgi di non sapere un accidenti. Come nella vita». Nel giardino di Libereso, però, qualche certezza c’è. A cominciare dall’albero di avocado coi frutti verdi a forma di mammella dalla scorza dura: «è il primo che fu mai piantato in Riviera, rubai il seme dalla Stazione Sperimentale di Villa Meridiana. Il Professore, Mario, ne aveva portata una collezione dagli altopiani del Messico, con la foglia si fa un té al gusto di anice». Poi, un cancello in ferro battuto arrugginito proprio nel mezzo del piccolo bosco di Guglielmi: «È uno stratagemma che serve a dare l’illusione ottica di avere due giardini anziché uno» — e, ancora, la grotta della sorgente: «Qui dentro giunge l’acqua direttamente dai monti, mia madre fece costruire un lavatoio per i panni. La vegetazione l’ha nascosta, bisogna farsi largo con le mani per trovarla». E infine la serra segreta in cui Libereso compie i suoi esperimenti: «Ci tengo le piante grasse, come la Lophophora Williamsii originaria del Messico. Non le tocco quasi mai: le piante sono come le donne, se dai loro troppa attenzione, ti fanno i dispetti».
La casa a due piani sembra un tronco che spunta, si contorce e alla fine riesce a emergere tra le fronde degli alberi, anziché tra i palazzi come farebbe una pianta. All’ingresso, c’è subito lo studiolo di Guglielmi con la libreria piena di preziosi, antichi volumi di botanica, compreso un Dictionary of Gardening del 1901, e soprattutto la grande, splendida raccolta di disegni di fiori e semi realizzata da Libereso. «Fu il disegnatore Antonio Rubino, anche illustratore del Corriere dei Piccoli, durante le sue assidue frequentazioni a casa Calvino, quando indossava sempre un cappello da esploratore africano, a notare le mie qualità. Da allora non ho più smesso: disegno anche fontane e mi diverto nelle vignette ironiche». Gli oggetti più cari del giardiniere di Calvino — «Italo lo ricordo col grembiulino, le forbicine da potare, i coltellini… Voglio fare il giornalista, diceva alla madre, che gli ribatteva severa “No tu farai il botanico”. La sua profondità di sentimento l’ha espressa nei romanzi, dal vivo non ne era tanto capace» — sono contenuti in una teca che custodisce anche antiche statuine, senza valore, trovate a Ercolano, fossili, incensieri. «Un giardiniere si imbatte in molti oggetti del passato che hanno continuato a vivere tra i rovi ma io alle cose non sono legato, da esse non nasce niente. Così come non credo in una religione particolare. Ho girato il mondo trovando il bene in questo e in quel credo. Per me Dio è il sole, il resto non mi interessa. Sarò anche un po’ primitivo — si congeda assiso sullo scranno in legno intagliato dal padre, che vi ha inciso le parole freedom, work, peace —, ma penso che l’anarchia sia l’unica legge valida nel mondo. Come un giardino in cui lavori con le mani, sentendo il contatto con la terra, la luce e l’acqua. Gli elementi di cui in fondo siamo figli».