Marco Sodano, La Stampa 18/3/2014, 18 marzo 2014
MOSCA SPINGE IL BUSINESS CON L’UE PER SCONGIURARE IL DEFICIT NEL 2015
Non ci sono, almeno per ora, sanzioni economiche contro la Russia. Puntuali, le Borse europee hanno ripreso fiato chiudendo in positivo (Milano in testa, con una crescita del 2,52%) dopo una settimana di ribassi nei quali molti avevano letto il timore di ripercussioni della crisi ucraina sull’asse del business che lega Mosca e i paesi dell’Unione europea. I contratti vanno chiusi, specie quando c’è un gran bisogno di farlo.
Le intese Rosneft-Pirelli e Rwe-Alfa annunciate ieri hanno tutto il sapore di questa congiuntura, anche se è chiaro che il loro arrivo al culmine della crisi con Kiev non può che essere una coincidenza: affari del genere richiedono mesi per essere pronti. Partecipato al 70% dallo Stato, guidato dall’ex vicepremier Igor Sechin - considerato il braccio destro di Putin, nato con l’acquisto con l’asta (molto discutibile e molto discussa) delle attività di Yukos che fino al 2003 erano dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky - il colosso energetico russo Rosneft è visto come una delle aziende più esposte al rischio sanzioni, se mai saranno decise.
A Mosca, nei giorni scorsi, c’è stata una riunione con i rappresentanti delle imprese europee sull’eventualità di sanzioni in conseguenza della crisi con Kiev. I toni erano piuttosto concitati: Vygaudas Ušackas, diplomatico lituano ambasciatore di Bruxelles a Mosca, è stato preso a male parole. Preoccupatissimi gli italiani: l’export nostrano in Russia vale più di 10 miliardi. E il 70% di questi affari è fatto di macchinari e tecnologia, merce che si scambia sulla base di commesse durature: «non si tratta di magliette che se non le vendi lì le dirotti da un’altra parte», spiegava un imprenditore che ha partecipato all’incontro. Andiamoci piano a parlare di sanzioni. Senza dimenticare che anche gli imprenditori tedeschi rischiano affari a nove zeri. E poco importa se la Cancelliera Angela Merkel ha attaccato l’atteggiamento russo nella crisi Ucraina.
Sul fronte opposto, l’urgenza è altrettanto impellente. La Russia non è più il monolite che poteva sopravvivere senza scambi con l’esterno. E se con i prezzi del petrolio alti le era più facile farla da padrona, seduta sui giganteschi giacimenti controllati dalla stessa Rosneft e da Gazprom, oggi deve combattere con l’odiato shale gas americano. Gli Usa comprano meno gas liquefatto dagli emiri perché se lo fanno in casa sbriciolando rocce, gli emiri sono venuti a cercare clienti in Europa abbassando i prezzi. E giusto nel giugno scorso Eni, partner solidissimo per Mosca, ha discusso una riduzione delle forniture da Gazprom. Il clima è questo.
C’è una relazione precisa tra il prezzo del petrolio e l’aggressività (commerciale) russa nel resto del mondo. Quando il primo scende, la seconda alza il tiro, cercando nuove rotte di espansione. Il paese, che si era già confezionato l’immagine di superpotenza energetica, nel periodo pre-crisi cresceva del 7-8% l’anno. Oggi il 4% è diventato un traguardo irraggiungibile, mentre l’inflazione viaggia al 6,9% e il calo delle esportazioni di petrolio rischia di portare i conti pubblici in deficit già dall’anno prossimo.
Da due anni il prezzo del barile è in discesa, mentre Mosca avrebbe bisogno dell’esatto contrario: prezzi alti per sostenere il peso gigantesco dell’impiego pubblico (nel 2013 gli aumenti contrattuali del settore statale, da soli, sono costati 50 miliardi di euro) e in continua crescita per calmierare, via via, la corsa dei prezzi. Così la parola d’ordine del governo è «ristrutturare l’economia», ovvero ridurre la dipendenza diretta da petrolio e gas. Ovviamente restando in settori collaudati. Rosneft, per esempio, estrae e produce idrocarburi, ma si è già trasformata in un grande gruppo che ha interessi nella logistica, nelle reti di distribuzione e anche nel marketing. È in Italia da diversi anni, alleata di Saras, Autogrill, Enel e della stessa Eni. Nella stessa direzione la mossa di Alfa, che si è aggiudicata licenze di estrazione (gas e petrolio) in Europa, Medioriente e Nord Africa. C’è un gran bisogno di fare affari, su entrambi i fronti: e infatti le sanzioni (economiche) possono attendere.