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 2014  marzo 18 Martedì calendario

INCONTRI, SCONTRI E DIFFIDENZE CINQUE PREMIER ITALIANI E UN’UNICA CANCELLIERA TEDESCA

I premier passano, la Merkel rimane: Matteo Renzi è il quinto presidente del Consiglio cui tocca il riverente omaggio alla cancelliera tedesca. Il primo fu Silvio Berlusconi, e che prologo: al vertice di Bruxelles cui Angela prese parte da esordiente (marzo 2006) i due si lasciarono fotografare sbaciucchianti e sorridenti. Silvio era quasi un modello: «Dovremmo imparare da lui», diceva la Merkel nel 2001 ammirata dalla fedeltà degli alleati di Forza Italia, e per fortuna sua non imparò. Condividevano la dimora nel Ppe e si scambiavano congratulazioni a ogni vittoria elettorale. Quando lei divenne capo di governo (novembre 2005), lui disse: «Sarò ancora io a incontrarla nei prossimi cinque anni», e invece alle successive Politiche avrebbe ceduto a Romano Prodi. Il confino durò poco e l’8 luglio 2008 la coppia si ricompose al G8 di Toyako, Giappone. Berlusconi arrivò con una scatola infiocchettata: «È un salame». Che pensiero delizioso. Angela sorrise imbarazzata: «Io non ho niente per te». Non si discuteva ancora di crisi finanziaria. Il nostro premier era persuaso di guadagnare con la Merkel - dopo gli anni pacifisti del duo franco-tedesco Jacques Chirac-Gerhard Schroeder - un buon alleato a Washington. «Berlino farà un piccolo passo verso Roma allontanandosi da Parigi», disse. Era una moina continua. A Trieste, novembre 2011, Silvio si nascose dietro la colonna di Carlo VI d’Asburgo e al passaggio della collega fece l’immortale «cucù». Lei lo abbracciò. «La conosco, so che si diverte», disse lui.
Ma l’anno successivo, al vertice Nato di Strasburgo, Berlusconi arrivò ed era al telefono con Tayyip Erdogan. Fece cenno di attendere. Passeggiò lungo il fiume impegnato nel fondamentale colloquio, sinché la cancelliera non si scocciò e lo piantò lì. La crisi dei mutui, come si diceva allora, si faceva sentire intanto che Berlusconi la misurava sulle prenotazioni nei ristoranti. Ci furono discussioni sulla tassazione delle rendite finanziarie, sul ruolo russo in Europa, sull’austerity. E poi le intercettazioni in cui Silvio esprimeva pareri rubicondi sull’attrattiva del lato b merkeliano. Arrivò l’estate (2011) delle manovre a ripetizione, dello spread, quella del raggelante sorriso della Merkel con Nicholas Sarkozy a proposito dell’affidabilità berlusconiana, e da Berlino diffondevano comunicati di questo garbo: «Ho telefonato al presidente del Consiglio chiedendo l’adozione di un bilancio rispondente alle esigenze di risparmio e di consolidamento».
L’intermezzo di Prodi era stato più semplice. Poi Prodi, altro che cucù, portava la Merkel alla Scala o ai musei vaticani mentre lei, a paragone del prof bolognese, pareva una giocherellona: lo invitò a Dortmund per la semifinale del campionato del mondo di calcio (luglio 2006). Prodi non è proprio un fine intenditore. Dopo 118 minuti di gioco, a un soffio dalla fine dei supplementari, Angela gli confessò di odiare i rigori; e trenta secondi dopo Fabio Grosso segnò il gol che portò l’Italia in finale. «La cosa l’ha colpita moltissimo. Le ho spiegato che è il famoso fattore C di Prodi», disse il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E però lì c’era una Merkel non ancora padrona d’Europa e un’Europa ancora economicamente integra. I bilaterali avevano per tema il clima o il medio oriente. Ricorderete l’umore che invece precedette l’insediamento di Mario Monti. «L’Eurozona orienta su di lei grandi speranze», disse la Merkel al prof varesino. Lui ottenne la fiducia (novembre 2011) e volò a Berlino a mostrare il piano delle riforme. «Misure impressionanti!», disse la Merkel. Era un inno. A gennaio la cancelliera proclamò che «l’Italia ha fatto cose straordinarie». Saltò fuori il terribile modo di dire dei «compiti a casa». «L’Italia torna protagonista», scrivevano i giornali italiani. Monti sembra un tedesco, è persino puntuale, scrivevano quelli di Germania. E lui già invaghito di sé: «Per i tedeschi sono il genero ideale». Anche stavolta non durò granché. A gennaio M&M cominciarono a litigare sugli eurobond: «In un modo o nell’altro li avremo», disse Monti; «in nessuna circostanza», rispose Merkel. Poi sulla crescita e sullo scudo anti-spread. A metà 2012 si era già agli stracci: «L’Italia ce la fa perché ce la fa, non perché lo dice la Merkel». E poi: «Se chiediamo politiche di crescita non necessariamente aspiriamo ai soldi della Germania». E ancora: «Qualche volta Angela si lamenta per la mia durezza». Lo chiamavano Supermario, come Supermario Balotelli, autore di due gol nella solita vittoria calcistica dell’Italia sulla Germania, Europei 2012.
Il successore, il beneducatissimo Enrico Letta, rafforzò la tradizione del volo immediato dopo la fiducia. Stavolta nessun entusiasmo per le misure eccezionali, ma protocollari incoraggiamenti («l’Italia ha già compiuto un pezzo di strada»). Matteo Renzi, praticamente, era già in aeroporto. Nel luglio 2013, da sindaco di Firenze, volò a Berlino da Angela. Parlarono di integrazione europea e del bomber tedesco della Fiorentina, Mario Gomez. Chissà se anche stavolta l’unica a rimanere sarà lei.