Roberto Cotroneo, Sette 7/3/2014, 7 marzo 2014
SOLITUDINE E PASSIONE, ASSENZA E SESSO. PER UN AMORE VIRTUALE SI PUÒ DAR L’ANIMA A UN SISTEMA OPERATIVO
SOLITUDINE E PASSIONE, ASSENZA E SESSO. PER UN AMORE VIRTUALE SI PUÒ DAR L’ANIMA A UN SISTEMA OPERATIVO –
Era difficile raccontare in un film l’assenza. Il cinema avvolge, mette assieme, include, rende visibile. Non è fatto di lettere scritte a mano, o di parole dette da persone che non puoi vedere. Il cinema è spettacolo, e lo spettacolo è là: bello, forte, che ti arriva addosso come un treno dallo schermo. E invece Spike Jonze lo ha fatto, ha mostrato l’assenza. Molti anni dopo un capolavoro come Essere John Malkovich, ha provato a raccontare una serie di cose che nessuno è capace di spiegare, di mettere in un film, senza finire in un mare di luoghi comuni.
L’assenza, e non la solitudine. L’assenza non ti lascia solo. Non è qualcosa che manca, è qualcosa che non c’è. E Lei, questo è il titolo del suo film (in sala dal 13 marzo), non c’è, non esiste, ma tiene compagnia, meglio: riempie la giornata di Theodor come nessun altro umano sarebbe capace di fare. Perché Lei, ovvero Samantha, ascolta e capisce, risolve e aiuta, pensa e non si lascia mai trovare impreparata, soffre senza essere invadente, accetta con dolore, aspetta con pazienza. Una donna perfetta insomma, se non fosse che non è un essere umano, Samantha, ma è un sistema operativo.
Spike Jonze è un americano di provincia, piccola provincia, Rockville per l’esattezza, nel Maryland, uno che si muove tra i dettagli, che vede le cose perché è nato in periferia, lontano. Lui in questo film mette in gioco Theodor. E inventa una fantascienza prossima ventura, una fantascienza moderata, centrista si potrebbe dire, che non eccede in soluzione ardite, che non immagina cose stupefacenti. Ma sta solo un po’ più in là, più avanti di quel poco che serve per farsi raggiungere al più presto dalla scienza. Theodor (l’attore Joaquin Phoenix) vive a Los Angeles, che è Los Angeles solo in parte. Perché per l’altra parte è un quartiere avveniristico, ma esistente, a Shanghai, nel distretto di Pudong.
Theodor fa un lavoro curioso: scrive lettere d’amore per altri, che non sanno farlo. Mette su carta emozioni che sono le sue e che diventano di altri. È un uomo mite, con un matrimonio fallito alle spalle, con una bella casa, molto moderna. E con un dispositivo, una sorta di smartphone che assomiglia a un portasigarette di quelli che usavano i nostri nonni. Veste con pantaloni a vita alta, cammina a piedi, ha qualche amico.
Un giorno installa sul suo computer un nuovo sistema operativo: Os, si chiama. Naturalmente è evoluto e parla. E a parlare è questa voce che di nome fa Samantha. Solo che è una voce emozionale, emozionata, capace di pensare, capace di malinconia, capace di desiderare. Perché il punto è questo. I sistemi operativi sanno, ricordano, raccontano e organizzano, ma non hanno malinconie perché non desiderano, non sanno cosa sia il privarsi di qualcosa che si vorrebbe e non si può avere. I computer organizzano il tempo, ma non temono il tempo. Almeno fino a oggi.
Lei, Samantha – nel film con la voce di Scarlett Johansson, e nell’edizione italiana con la voce di Micaela Ramazzotti – ha nostalgia e malinconie, desidera e pensa al futuro, ricorda e teme lo scorrere delle cose. Ingenua fantascienza? Niente affatto. In realtà Lei è l’anticipo spaventoso di quello che sarà il nostro destino. Un destino di assenze senza solitudini. Di luoghi spopolati da vite vere, eppure pieni di cose autentiche.
Senza dubbi né immagini. Theodor si innamora di Samantha, e Samantha si innamora di Theodor. La voce di Micaela Ramazzotti che ascolterete nell’edizione italiana è tutt’altro che sintetica o neutra, una voce disponibile, capace di star vicino a Theodor, di condividere le sue passioni e la sua vita. Solo che questo non è un film sull’amore virtuale. La solita storia di due che non si conoscono, che si incontrano, che si scrivono. Non è il trionfo della letteratura amorosa genere Laclos. Qui ci sono un uomo e una macchina. Theodor non potrà mai incontrare Samantha, perché lei non esiste, non ha un corpo. Theodor non può mentire al suo sistema operativo, e Samantha non può mentire a lui. Non ha bisogno di descriversi in un modo diverso, non ha dubbi sul suo aspetto fisico, non ha un aspetto fisico. Non ci sono di mezzo immagini, fotografie, in questa relazione. E poche parole scritte, ma è solo conversazione. Non c’è possibilità di un incontro. Eppure entrambi evolvono, cambiano, si capiscono. Theodor sa che con lei potrà essere sincero fino in fondo. Samantha sa che potrà esserci tutte le volte che lui desidera parlarle. Fanno anche l’amore, in modo virtuale. E quando lei è emozionata sospira. Anche se lui le dice: «Tu non hai bisogno di ossigeno, perché sei affannata?».
Ma non c’è mai un elemento fuori posto in questa storia, mai una sbavatura, mai un dettaglio esagerato. Tutto corre nel regno del possibile, e in un futuro che ci sgomenta. Perché è solo un po’ più in là, ma esiste. Non troppo lontano da Los Angeles, alla University of Southern California lavora un ingegnere chimico. Si chiama: Daniel Lidar. Studia la teoria dei sistemi quantistici, con un progetto ambizioso: quello di cambiare il modo in cui vengono elaborati i dati. Non più con i bit, ma con i qbit. Insomma Lidar ha collaborato alla costruzione di un computer quantico che non ragiona attraverso un sistema binario, ma con una quantità di possibilità in più. Perché i computer quantici hanno la capacità di imparare dall’esperienza. Ricordano e hanno memoria, ma soprattutto sono capaci di riflettere su quel che sono stati. Se ricordi, se hai memoria, e se rifletti, hai nostalgia, e prima o poi rischi di trasformarti in Samantha. Vite virtuali senza corpi: vite fuori dal mondo che riempiono le giornate di gente ancora viva che fatica a esistere.
Il dolore addosso. È un film vertiginoso Lei. È il sentirsi senza sapersi dei social network, è lo scrivere senza guardarsi. È la parola che non si fa corpo, ed è il tempo che non corre più in avanti, ma arriva dappertutto. In questo film non c’è futuro e non c’è passato. Ci sono sentimenti che fluttuano dentro tecnologie che servono solo a capire come l’amore possa crescere ovunque, nelle crepe di vecchi muri a secco, come fosse una pianta spontanea, o attraverso oggetti tecnologici impensabili, e capaci di trasformare il proprio computer, in una storia, in un racconto di emozioni. Quando finisce il film esci dalla sala con una sensazione tremenda. Quasi stupito che il mondo possa ancora esistere come è sempre stato. E hai addosso una sensazione di pericolo, quasi.
Micaela Ramazzotti, la voce di Samantha, è rimasta scossa da questa esperienza. Mi dice: «Ho pianto tanto quando l’ho visto per la prima volta. Perché mi ha impressionato l’evoluzione che c’è all’interno di una coppia. Il rapporto tra Theodor e Samantha è in crescita. Si evolve. Mi ha impressionato che proprio un sistema operativo del futuro fosse capace di entrare in quella cosa antica che è l’amore, che esiste da sempre». Solo che Samantha è un sistema operativo, e per lei evolversi significa prendersi addosso tutto il dolore della sua impossibilità, la sua paura di non essere adeguata. La sua gelosia per coloro che un corpo lo hanno. Theodor la rassicura, a lui questo non interessa. Le dice: «C’è qualcosa di molto bello nel condividere la tua vita con qualcuno». E lei gli risponde: «Come si fa a condividere la vita con qualcuno?».
In realtà questo film ti spiega che si può condividere qualcosa di ancora più importante della vita stessa. Come se i sentimenti, la nostalgia, il desiderio, possano diventare qualcosa che non appartiene a nessuno in particolare, né agli umani e né alle macchine. Ma entrano in qualcosa che sta altrove, qualcosa che non ha regole, una sorta di inconscio collettivo sentimentale che è patrimonio di tutti, e rende tutti uguali. Samantha e Theodor sono questo. Ma non sono i soli. Nel film si capisce che sono molti gli uomini e le donne ad «avere relazioni con un Os, con un sistema operativo». Ogni debole sorriso sulla trovata di Spike Jonze per chi non ha ancora visto il film è del tutto fuori luogo. In Lei c’è la sintesi estrema di quello che stiamo diventando. E di quello che non possiamo più essere. Siamo scrittura, strutture narrative, ed empatia con gli altri, un’empatia sintetica che non ha ancora trovato buone regole di funzionamento.
Siamo capaci di confessare le nostre debolezze a uno sconosciuto in un social network e nascondere la nostra disperazione a tutti quelli che conosciamo da sempre. Siamo in grado di trasformare altre vite, di cui non sappiamo niente, in sistemi operativi senza corpi, che ci parlano, ci giudicano, ci osservano, senza parlarci veramente, e senza veramente osservarci.
Micaela Ramazzotti mi racconta che non ha voluto fare pause mentre doppiava questo film (che è molto di più di un semplice doppiaggio): «Nove ore al giorno, tutti i giorni, e quando tornavo a casa continuavo a pensare a Samantha. Perché questa donna esiste. Al punto che in Lei c’è la più bella scena di sesso al cinema che io abbia mai visto. Intensa e vera». È una scena virtuale, ovviamente. Forse è intensa perché non è vera. Perché abbiamo aggiunto vite, narrazioni, possibilità e futuro alla semplicità di esistenze che il futuro lo costruivano ma non lo decoravano come si fa oggi con fregi preziosi. Theodor e Samantha si seducono dentro uno spazio che per Theodor è vuoto, e per lei è solo un algoritmo di cui sappiamo molto poco. Però ci illudiamo che i sentimenti siano gli stessi per tutti. Non solo per uomini di Paesi diversi e di culture diverse, non solo attraverso i secoli e la storia, ma anche tra macchine ed esseri umani: tra sistemi operativi inalterabili e algidi, e corpi, pelle, sangue e sudore. Come se ormai in questa società che sembra dominata da tecnocrati e potenti l’unico modo per sopportare un orizzonte incerto è quello di raccontarsi la vita, come fossimo degli intrattenitori di se stessi. Gabriel García Márquez ha intitolato la sua autobiografia: Vivere per raccontarla. E oggi raccontare vuol dire mostrarsi altrove, a quelli che non sanno riconoscere il tuo disagio o la tua gioia da un battito di ciglia, a quelli che non sanno immaginare il tremore delle tue paure.
Samantha c’è sempre quando lui clicca il tastino dell’auricolare che lo mette in comunicazione con lei. Micaela non è virtuale per niente, non sa gestire la tecnologia, non è in grado neppure di trasferire i propri dati da un cellulare a un altro. Davanti a me è la voce di Samantha, ma è anche lo stupore di una donna reale profondamente turbata da una storia che sembra lontanissima da quello che lei è davvero: «Theodor e Samantha si vivono, se così possiamo dire, quando decidono di esserci. Se vuoi è proprio il problema delle relazioni virtuali di oggi. Sei connesso quando sei disposto a condividere, quando ne hai voglia. Poi quando spegni resti solo, decidi di non mostrare quella parte di te, che non vuoi che sia visibile».
Non si tratta di mostrare o di nascondere, di voce o di silenzi. Si tratta di inventare. Di generare un’alchimia che metta assieme tutto quello che si può essere, senza rischiare di essere davvero qualcosa. Theodor si sente libero. Ma Samantha comincia ad avere paura. «E a farla breve, ho avuto paura», scriveva T.S. Eliot in un suo celebre poemetto. Perché, sempre parafrasando Eliot, Samantha non può osare di turbare l’universo. Perché alla fine la somma di storie che non ci sono e di amori che non riescono a essere come risultato fa sempre zero.
A furia di raccontare quello che non esiste, quello che si vorrebbe, ci si dimentica della perdita, non accetti mai il passare del tempo, lo scorrere dell’esistenza. Anche Theodor perderà Samantha. Anzi. Comincerà a capire che quella storia d’amore entra in crisi quando il sistema operativo andrà in upload per aggiornarsi, e lui non riuscirà per qualche ora a comunicare con lei. Ma soprattutto quando Samantha gli dirà che parla con altre 640 persone. Ma non uno alla volta, non sarebbe da sistema operativo: tutte allo stesso tempo, ovvio. E allora l’appartenenza, l’esserci, l’aversi dove va a finire? Perché l’aversi può esistere davvero quando si decide di affrontare il tempo insieme, quando cambiare è comunque un po’ morire, dopotutto.
Troppo umana. Non può continuare la storia tra Theodor e Samantha. La voce del sistema operativo è malinconica, piena di rimpianti, senza rimorsi. Lei non fa errori. Lui non può rimproverarle niente. Nessun amore può reggere senza errori, nessun amore sopporta l’impossibilità di franare in un rimprovero qualsiasi, anche il più banale. Tantomeno quello di Theodor e Samantha. Lei addirittura in una conversazione dice che non si piace in quel momento, che lo richiamerà.
Ma in questa fantascienza che cerca di leggere un futuro che ancora non c’è, questa fantascienza che troveremo facilmente all’incrocio successivo del nostro cammino, il passato, la consistenza della terra, arriva tutta assieme. Nei paesaggi di montagna, nei boschi dove cammina Theodor quando ancora spera di ritrovare un’intesa con Samantha ma senza crederci più: e capisce che la solitudine e l’amore possono essere la stessa cosa. Anzi che l’amore sta diventando una forma di solitudine, più di quanto si pensi. E lentamente la loro storia sfuma in modo inevitabile. Umana troppo umana, per certi versi.
Il tempo torna a essere tempo anche se attraverso la voce di Samantha, quella voce che non appartiene al mondo, tutto dovrebbe restare eterno. E forse in questo mondo di assenze che ci parlano di continuo dagli schermi dei computer, degli smartphone e di tutto quello che ci rende connessi, non hai neppure più la libertà di restare da solo. Non puoi permetterti neppure quella solitudine che un tempo sembrava preludio alla disperazione e oggi è diventata un lusso; più dell’amore, più di tutte le storie che il mondo ci regala e che non possiamo fare nostre ma possiamo solo attraversarle in una bacheca di Facebook o di Twitter. Cambiando quel titolo di Márquez, vivere per raccontarla, in un altro titolo: non vivere per raccontarla.
Roberto Cotroneo