Ferdinando Salleo, La Repubblica 7/3/2014, 7 marzo 2014
IL REBUS PERICOLOSO DELL’UCRAINA STRETTA TRA L’ORGOGLIO RUSSO E I FANTASMI DI GUERRA DEL 1914
LE VICISSITUDINI della storia e le improvvisazioni della politica hanno creato l’Ucraina post-sovietica indipendente, un paese grande più della Francia, collocato nella piattaforma strategica centrale, cerniera del teatro europeo tra Est e Ovest. Invaso nei secoli da tanti popoli che ha finito col ritrovarsi un assemblaggio di regioni, è un paese così diverso nelle sue parti, anche fisicamente oltre che per le opere dell’uomo, dall’eleganza mitteleuropea di Leopoli alla solenne magnificenza ortodossa di Kiev, dalla cosmopolita Chernowitz alla civiltà marittima e mercantile di Odessa, dalle grigie miniere del Donbass alle fertili terre nere delle pianure orientali.
Per la Russia, la “perdita” dell’Ucraina nel 1990-1991 con la proclamazione dell’indipendenza e la fine dell’Urss è sentita come una ferita aperta, accettata obtorto collo con l’invenzione di uno status particolare, l’“estero vicino”, che sta tra la sfera d’influenza della tradizione e la sovranità limitata di brezneviana memoria. Gli aspetti militari sono particolarmente importanti per il Cremlino: a parte la compenetrazione tra le rispettive forze armate e le considerazioni di profondità strategica e sicurezza territoriale, non si può dimenticare che la base navale di Sebastopoli, in Crimea, è l’unico sbocco della flotta russa verso il Mediterraneo. L’appartenenza di Kiev all’Unione europea sposterebbe verso occidente l’equilibrio continentale. Sarebbe anche incompatibile con l’Unione eurasiatica che, nel disegno del Cremlino, dovrebbe legare a Mosca, oltre alla Bielorussia, le satrapìe centroasiatiche e forse il Caucaso per ricostruire in altre forme, nonostante le smentite, lo spazio geopolitico sovietico. Nell’accantonamento o nella svirilizzazione del progetto putiniano le repubbliche dell’Asia centrale potranno sottrarsi alla morsa e consolidare la propria indipendenza nel bilanciamento tra Mosca e Pechino. L’Unione europea si è adoperata per prefigurare aiuti e assistenza non solo economica a un governo ucraino credibile. Aveva offerto un accordo di associazione rafforzato — respinto da Yanukovich a Vilnius — ma si è tenuta cautamente lontana dall’offrire a Kiev un impegno per l’adesione all’Unione, quella che le piazze ucraine reclamavano nell’equivoco alimentato da qualche avventata dichiarazione, o dalla speranza ad ogni costo. Dopo l’equivoca visita di tre ministri europei a Kiev, Katherine Ashton si adopera per un pacchetto di aiuti che associ gli Stati Uniti e il Fondo monetario, un’operazione d’emergenza meno spettacolare di quella promessa da Putin, ma che possa innescare un processo di ripresa mediante investimenti internazionali e adeguate garanzie, nell’impegno per le riforme e il ripristino della legalità.
L’associazione resta sempre sul tavolo. Tuttavia, in un tempo ragionevole nessuna ammissione all’Ue è realisticamente possibile: dopo gli ultimi allargamenti il sentimento di saturazione, diffuso nell’Unione, alimenta i movimenti xenofobi e rende impossibile la ratifica di nuovi ampliamenti. Bisogna poi ricordare i dubbi, pur sottaciuti, di parecchi paesi membri dell’Ue per il progressivo slittamento a Est del baricentro dell’Unione sotto la spinta tedesca e la trazione polacca, come anche per le pressioni americane che, vedrebbero con favore l’allargamento anche ad altre repubbliche ex-sovietiche dimenticando che l’ossessione geopolitica di Mosca si dibatte tra la sindrome dell’accerchiamento e quella dell’esclusione.
Proprio di fronte all’anelito europeo del Majdan, è umiliante però non vedere una strategia dell’Unione verso Oriente. In realtà, anche se non per esclusiva sua colpa — la Russia, ad esempio, si è negata alle aperture per una carta dell’energia, mentre il dialogo politico langue — l’Europa non ha saputo darsi una politica di lungo periodo verso Mosca ed ha anche dovuto registrare su quel tema sensibilità diverse tra i vecchi e i nuovi membri.
Svanita la “casa comune europea” del tempo di Gorbaciov e affondate nel caos eltsiniano le speranze della democratizzazione del gigante bicontinentale, il rapporto con Mosca può oscillare tra l’isolamento della Russia che limiterebbe i rapporti al campo economico-commerciale ed energetico, oppure il riconoscimento che il Cremlino che è oggi uno dei protagonisti dell’equilibrio mondiale con cui l’Europa non può fare a meno di dialogare. Del resto, la lezione impartita a tutti da Mosca sulla Siria e sul nucleare iraniano dovrebbe essere stata compresa. Soprattutto se l’Europa vorrà esercitare un ruolo nel “concerto delle potenze” che si profila, quasi come quello dell’Ottocento, per promuovere e garantire l’equilibrio e la stabilità.
Infine, gli Stati Uniti che guardano prioritariamente alla stabilità del Pacifico e al rapporto con la Cina. Impegnata nella politica di lead from behind inaugurata nel Mediterraneo, Washington esprime pieno appoggio per le riforme costituzionali e indurisce gli avvertimenti al Cremlino. I contatti proseguono ad alto livello tra Kerry e Lavrov. La Crimea, però, è in fiamme e il suo destino è al centro della crisi. Diventata Repubblica autonoma dopo l’indipendenza dell’Ucraina, la penisola potrebbe staccarsi da Kiev, ma in un complicato processo in cui giocano tutti i trattati internazionali del secolo scorso. Il nuovo premier ucraino Yatsenyuk si è rivolto alle Nazioni Unite, impotenti senza un’intesa tra le maggiori potenze, quadro tuttavia di legittimità internazionale per ratificare e garantire l’intesa raggiunta.
L’incubo di un conflitto simile a quelli post-jugoslavi sembra impensabile, sempre che la maledizione del centenario non faccia risorgere gli spiriti malefici del 1914. Malgrado gli atteggiamenti marziali, le dichiarazioni americane, russe ed europee sembrano tuttavia indicare una strada percorribile verso una soluzione politico-diplomatica che tenga conto dei legittimi interessi di tutti, sorretta poi da strumenti economici e finanziari che mirino alla stabilità e tengano lontano lo spettro della guerra civile. Se la tregua durerà nella capitale, se le manovre militari non degenereranno per qualche incidente e i colloqui politici si allargheranno a tre — condizioni difficili, ma non impossibili — l’assetto geopolitico suggerisce un’intesa tra Europa, Usa e Russia che rafforzi l’indipendenza politica dell’Ucraina in un equilibrio centroeuropeo dove il timore del Cremlino per l’accerchiamento sia scongiurato formalmente, anche riguardo all’ingresso di Kiev nella Nato, e quello dell’isolamento sia alleviato proprio dalla partecipazione al rinnovato “concerto” delle potenze.
Non è necessario sottolineare l’urgenza dei colloqui, anzitutto tra europei e americani, che presuppongono una posizione ferma e condivisa dei primi, quindi con i russi per assumere le garanzie necessarie e verificabili. Il pacchetto di assistenza economica e finanziaria dovrebbe esserne il supporto sul terreno che permetta al governo provvisorio di evitare la bancarotta e dare sollievo alla disastrata popolazione mettendo anche mano alle riforme. A medio termine, le riforme costituzionali, la lotta alla corruzione e gli investimenti esteri potrebbero dare al paese la sospirata stabilità. Il tempo stringe e l’opinione internazionale preme sui rispettivi governi perché un altro disastro non si aggiunga a quello siriano e alle crisi locali che diventano endemiche.