Luca Ricolfi, La Stampa 7/2014, 7 marzo 2014
CREARE OCCUPAZIONE COI MAXI-JOB CUNEO AL 20% SUI NUOVI CONTRATTI
C’è qualcosa che non mi convince, nella maggior parte delle proposte per alleggerire la pressione fiscale sui produttori e aumentare l’occupazione. Alcune di queste proposte sono vecchio stampo, altre sono decisamente più moderne e adeguate ai tempi. Però tutte, anche quelle verso cui ho la maggiore simpatia, hanno un denominatore comune che riassumerei in una parola sola: «redistribuire».
Questa parola, ridistribuire, può significare varie cose, anche parecchio diverse, ma deriva da una premessa realistica e condivisibile: per un paese indebitato come l’Italia non esistono pasti gratis. Se vuoi fare qualcosa, non lo puoi fare in deficit, invocando il permesso dell’Europa e la clemenza dei mercati. Se vuoi fare qualcosa devi «trovare» le risorse per farlo. Di qui tutto un lessico che gira sempre intorno al medesimo problema: qualsiasi cosa si voglia fare, dalla riduzione delle tasse sulle imprese alla concessione di sussidi ai disoccupati, invariabilmente occorre «trovare» le coperture, «reperire» le risorse, «individuare» le fonti di finanziamento, «spostare» entrate e uscite, ma sempre a saldi invariati. Il che, in concreto, significa identificare uno o più soggetti da tartassare con nuove tasse (ricetta che piace alla sinistra), o una o più voci di spesa da eliminare (ricetta che piace alla destra).
Ecco perché parlo di redistribuzione: l’idea è che ci sia una «torta» data, la torta del reddito nazionale, e che le fette di tale torta vadano tagliate diversamente, togliendo alcune briciole a qualcuno per darle a qualcun altro. Ma la dimensione della torta, almeno nel breve periodo, resta quella che è.
Trovare le risorse?
Questa, spiace rilevarlo, è una visione da ragioniere. O meglio è il punto di vista dei commensali, che ricevono una torta che qualcun altro ha già cucinato per loro, e non provano nemmeno per un momento a immaginare che il cuoco potrebbe cucinare, cucinare subito, non fra qualche anno, una torta un po’ più grandina.
Questo modo un po’ statico di vedere le cose riappare un po’ ovunque, e domina ampiamente il dibattito sull’eccessiva pressione fiscale che soffoca l’economia italiana. Venuti al dunque, però, si finisce sempre nella medesima trappola: poiché «trovare le risorse» è difficile, e appena ci provi scontenti mezzo mondo, i politici finiscono per accontentarsi di misure di impatto davvero irrisorio. E’ stato così con il governo Letta, che alla fine è riuscito a stanziare 3 miliardi scarsi per ridurre il cuneo fiscale, ma rischia di essere così anche con il governo Renzi, che di miliardi sta faticosissimamente cercando di trovarne 10 per alleggerire il costo del lavoro, una misura che lo ridurrebbe di appena il 2%. Una misura indubbiamente positiva, ma che in un paese che ha un cuneo fiscale tra i più altri del mondo (vedi grafico) non altererebbe in modo apprezzabile i conti delle imprese.
C’è qualcuno disposto a credere che ci siano imprenditori che non assumerebbero un lavoratore che costa loro 30 mila euro l’anno, ma in compenso lo assumerebbero se ne costasse «solo» 29.400? Si può ragionevolmente pensare che un’impresa che sta per chiudere perché i suoi costi sono eccessivi, non chiuderebbe se uno dei costi (quello del lavoro) diminuisse del 2%? Eppure è questo, il 2%, l’impatto di una riduzione del cuneo fiscale «a doppia cifra» (10 miliardi di euro), come quella di cui si parla da un po’.
Liberare le risorse!
Ecco perché, a mio parere, siamo in un vicolo cieco. Quello di cui molti paiono non rendersi conto è che la quota del costo del lavoro che lo Stato italiano lascia nelle tasche dei lavoratori è straordinariamente bassa, al limite della rapina. E questo con qualsiasi contratto di lavoro, eccetto ovviamente stage e tirocini, che lavori veri e propri non sono. Facciamo qualche esempio, partendo da un costo del lavoro non lontano da quello medio, e cioè 25 mila euro l’anno. Nella busta paga di un apprendista, che è la più pesante, il lavoratore trattiene circa il 62% del costo aziendale, dunque meno di due terzi. Un CoCoPro trattiene circa il 58%. Un impiegato a tempo indeterminato circa il 54%. Un operaio a tempo determinato non arriva al 52%. [vedi figura]
In breve, in nessuno dei contratti più diffusi il lavoratore arriva a trattenere i due terzi del suo costo, e nella stragrande maggioranza dei casi lascia allo Stato circa la metà di quello che l’azienda paga per lui.
Ma come uscire da una situazione del genere?
Dipende da quello che si vuole ottenere. Se si vuole solo dare un minimo di sollievo a lavoratori e imprese, allora uno sgravio di 10 miliardi può anche servire. Ma se lo scopo è quello di creare nuova occupazione, allora ci vuole ben altro. Quello di cui abbiamo bisogno non sono pannicelli caldi, ma misure shock. Misure per «liberare» risorse nuove, anziché ostinarsi a «trovarle». Misure per aumentare la torta, anziché spostarne le fette da un commensale all’altro.
Le risorse nuove, per fortuna, ci sono. Ma non sono solo i milioni di giovani, donne, disoccupati che sarebbero disposti a lavorare, ma anche – anzi soprattutto – gli imprenditori che, con uno Stato meno esoso, sarebbero disposti a fare assunzioni che altrimenti non farebbero. Ed ecco allora la proposta: per quattro anni, e a certe condizioni ben precise, permettiamo alle aziende e agli artigiani di assumere con un nuovo contratto che, per distinguerlo dal suo cugino tedesco (“il mini-job”), chiamerò maxi-job.
Che cos’è il maxi-job
Per maxi job intendo un contratto a tempo pieno, con una busta paga non inferiore ai 10 mila euro annui, mediante il quale il lavoratore trattiene in busta paga l’80% del costo aziendale e la Pubblica amministrazione incassa il resto, in parte come Irpef (che va allo Stato), in parte come contributi sociali (cha vanno all’Inps). Un contratto, dunque, che permetterebbe a un’azienda di trasferire nelle tasche del lavoratore 10 mila euro l’anno spedendone 12.500 anziché 20 mila, oppure di trasferirne 20 mila spendendone 25.000, anziché 40 mila come nella maggior parte dei contratti vigenti. Un contratto del genere, a differenza di un ritocco minimale del costo del lavoro, renderebbe possibili centinaia di migliaia di assunzioni che senza di esso non si verificherebbero, e quindi aumenterebbe la torta del reddito nazionale senza sottrarre risorse ad altri usi. In breve: libererebbe risorse, anziché costringerci a «trovarle», ossia a sottrarle ad altri.
Non è qui il luogo per entrare nei dettagli giuridici ed economici del maxi job (per questo vedi la scheda qui accanto), però ci sono almeno cinque punti su cui è bene spendere due parole, se non altro per rispondere ad altrettante possibili obiezioni.
Punto 1. E’ essenziale che il maxi-job sia, appunto, maxi (almeno 10 mila euro l’anno), e non mini o midi. Questo evita il rischio, tutt’altro che remoto in un paese a illegalità diffusa come l’Italia, che si stipulino contratti che formalmente sono part-time, ma in realtà sono contratti full time sottopagati. E’ quanto potrebbe succedere, ad esempio, con un mini-job di 400 euro al mese (come quelli previsti in Germania), formalmente part-time ma di fatto full-time.
Punto 2. Al maxi-job possono accedere tutte le aziende, di qualsiasi dimensione o forma giuridica, ma solo a condizione che l’assunzione o le assunzioni effettuate mediante maxi-job incrementino l’occupazione aziendale rispetto a quella dell’anno precedente, e che la durata del contratto sia compresa fra 1 e 4 anni.
Punto 3. Il maxi-job non è una misura assistenziale, volta a inserire nel mercato del lavoro categorie più o meno protette o svantaggiate. Un contratto di maxi-job può essere firmato da chiunque, in qualsiasi condizione, perché il suo scopo è di aumentare il Pil, non quello di sussidiare le fasce svantaggiate della popolazione (a questo devono provvedere altri strumenti).
Punto 4. Il lavoratore che, anche in periodi diversi, usufruisce di uno o più maxi-job, non può ricorrervi per più di 4 annualità in tutto.
Punto 5. La differenza fra il costo del lavoro totale (costo aziendale) e la busta paga, pari al 20% del costo totale, viene usata dal lavoratore per pagare l’Irpef e per accantonare contributi pensionistici (versamenti all’Inps).
L’Irpef dovuta viene pagata interamente, mentre l’Inps incassa l’intera somma che resta dopo aver pagato l’Irpef. E’ vero che in questo modo l’accantonamento pensionistico intestato al lavoratore è minore che per un contratto ordinario, ma è altrettanto vero che:
a) nel caso dei lavoratori aggiuntivi, che mai sarebbero stati assunti senza i vantaggi fiscali del maxi-job, viene generato un accantonamento pensionistico che altrimenti sarebbe stato pari a zero;
b) se il governo oggi auspica un forte incremento di rapporti di apprendistato (per i quali lo Stato copre il 90% della contribuzione previdenziale), nulla vieta che il governo stesso disponga una copertura anche per i maxi-job;
c) dal momento che il maxi-job non può essere usato dal lavoratore per più di 4 anni, in nessun caso il periodo di bassa contribuzione può superare il 10% della carriera lavorativa.
Il maxi-job si paga da sé
Ma il punto più importante, il punto chiave, è che il maxi-job si paga da sé. Si potrebbe pensare il contrario, visto che il maxi-job abbatte fortemente i contributi sociali, che corrispondono a circa 1/3 delle entrate totali della Pubblica Amministrazione. Ma in realtà non è così. Per capire perché, bisogna considerare due circostanze.
La prima è che i posti di lavoro incrementali (creati da aziende che aumentano l’occupazione) sono una frazione molto modesta delle assunzioni totali, che nella stragrande maggioranza dei casi sono semplici rinnovi di contratti precedenti o sostituzioni di lavoratori andati in pensione. Questo significa che l’eventuale perdita di gettito riguarda comunque una frazione modesta delle assunzioni totali.
La seconda circostanza da considerare è che ogni nuovo posto di lavoro genera un valore aggiunto, di cui il salario è solo una componente. Su quel valore aggiunto non gravano solo i contributi sociali (che con il maxi-job si riducono fortemente), ma anche tutte le tasse che, come cittadini e come aziende, normalmente paghiamo alla Pubblica Amministrazione: Irpef, Iva, Ires, Irap, Imu, solo per menzionare le cinque più note. E le tasse, con il maxi-job, non spariscono affatto, e pesano molto di più dei contributi sociali.
Per 100 euro di nuovo valore aggiunto prodotto dal settore privato dell’economia, i produttori ne tengono per sé 55, mentre tutto il resto (45 euro) va alla Pubblica Amministrazione in parte sotto forma di contributi sociali (12), in parte sotto forma di tasse (33). Quindi l’effetto del maxi-job è di distruggere gettito (gettito da contributi sociali) ogniqualvolta un contratto di maxi-job copre un posto di lavoro che si sarebbe creato comunque, mentre è di creare gettito (gettito da tasse) ogniqualvolta il maxi-job crea posti di lavoro addizionali, che senza il maxi-job non sarebbero mai nati.
Dunque, il maxi-job non solo dà lavoro a più persone di quante ne troverebbero uno senza di esso, ma si autofinanzia mediante le tasse che i nuovi contribuenti dovranno pagare. Ma si autofinanzia abbastanza da non ridurre il gettito complessivo della Pubblica Amministrazione?
Questa è una questione empirica, cui si può rispondere solo con una ricerca che stimi quanti posti di lavoro in più si creerebbero con i maxi-job. Qualche calcolo, tuttavia, si può fare anche a priori, basandosi sulla struttura del gettito. Supponiamo che non si faccia nulla, e che, non facendo nulla, il numero di posti di lavoro nuovi di zecca (incrementi occupazionali nelle aziende esistenti + posti di lavoro nelle aziende di nuova costituzione) sia pari a 100. Immaginiamo ora che venga introdotto il maxi-job, e che i nuovi posti di lavoro passino da 100 a 133 (un’eventualità che si può anche esemplificare così: un’impresa che intendeva assumere 3 lavoratori, grazie al maxi-job ne assume 4). Ebbene, basterebbe un’elasticità di questo tipo, da 100 a 133, per coprire interamente il mancato gettito dell’Inps. Se poi l’elasticità fosse maggiore, ad esempio si passasse da 100 a 150 o a 200, avremmo addirittura più gettito di prima. Solo se i posti di lavoro addizionali, pur essendo più di 100, fossero meno di 133, si potrebbe avere una riduzione, in ogni caso assai modesta, del gettito complessivo. Un’eventualità a mio modo di vedere decisamente remota, a meno di pensare che, in Italia, i livelli occupazionali non siano sensibili a una riduzione del costo del lavoro, con tanti saluti a tutti i discorsi che da anni si fanno sul cuneo fiscale.
Del resto, per capire come mai il maxi-job potrebbe funzionare, basta riflettere sul fatto che la riduzione del costo del lavoro implicita nel maxi-job è dell’ordine del 30%, mentre la più incisiva fra le misure di riduzione del cuneo fiscale finora proposte (10 miliardi di euro), riduce il costo del lavoro di circa il 2%. Se persino da una riduzione di così modesta entità ci si aspetta qualche risultato, a maggior ragione dovremmo attendercene da una riduzione che è 15 volte più ampia.
Il maxi-job non è un azzardo. Anzi, è una delle poche misure che possono avere un impatto immediato sull’occupazione, non richiedono di «reperire le risorse». Perché il maxi-job la torta non la redistribuisce ma prova, finalmente, a farla crescere un po’.