Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 27/2/2014, 27 febbraio 2014
GLI INTELLETTUALI ITALIANI SONO UN BRANCO DI PECORE
[Manlio Cancogni]
Nei giorni in cui l’Unione europea denuncia l’eccesso di corruzione in Italia abbiamo incontrato Manlio Cancogni, giornalista, scrittore, soprattutto intellettuale libero. La circostanza dell’euro-reprimenda non è ininfluente: è lui il cronista di “Capitale corrotta, nazione infetta”, titolo (in realtà era un occhiello) entrato nella storia. Era il 1956, l’inchiesta de l’Espresso sui rapporti opachi tra la Società generale immobiliare e il Consiglio comunale di Roma ebbe un’eco incredibile, anticipando di parecchi decenni una stagione che si sarebbe identificata perfino nominalmente con la parola “tangente”. Manlio Cancogni – compirà 98 anni in luglio – ha attraversato il Novecento con irriverente grazia: pensatore inquieto e allergico alle ideologie, è stato un narratore prima che un giornalista. Vissuto a Roma, a Parigi, negli Stati Uniti, dove abitano i bisnipoti, si gode una vecchiaia lunghissima (“da quando ero giovane ho sempre avuto paura di morire...”) guardando il mare della Versilia dalle finestre. Ci apre la porta la moglie Rori: stanno insieme da quando lei aveva 17 anni e lui, venticinquenne, la andava a prendere a scuola.
Perché nel ’56 fece così tanto scalpore la sua inchiesta su l’Espresso?
Ancora quella storia! Ma guardi che io non inventai nulla: i comunisti si erano già occupati della situazione fondiaria dell’amministrazione capitolina, ma erano all’opposizione e nessuno dava loro retta. Feci quell’inchiesta senza particolari aspettative, il titolo lo fece Arrigo Benedetti. L’accusa era contenuta in due righe dell’articolo, dove dicevo che la società immobiliare faceva pressioni sull’amministrazione municipale: se i corruttori delle società immobiliari non ci avessero querelati, sarebbe finita lì.
Ci racconta qualcosa degli anni dell’Espresso?
Sono molto grato a Benedetti: ha sempre sopportato le mie bizze, che erano numerose. Non mi sono mai preso sul serio. Questo ruolo di accusatore pubblico, di Robespierre, non mi stava bene, ma mi fu cucito addosso. A me piaceva il giornalismo, però non lo consideravo il mio mestiere. Il periodo più felice è stato quando facevo giornalismo di Terza pagina, con Montanelli al Giornale: dieci anni formidabili. Sono stato benissimo con Indro: l’avevo letto quand’era inviato di guerra, mi sembrava fascista. E certo, lui lo era stato da ragazzo, ma la sua rottura con il regime era avvenuta nel ’37. Era un grandissimo giornalista, non c’è dubbio. La sua Storia d’Italia ogni tanto la rileggo ancora, è così piacevole... Comunque Indro era un liberale, io un radicale del Partito d’Azione: nel ’36 ero fortemente antifascista. Non mi sarei sacrificato per la causa. Avevo combattuto sul fronte greco-albanese per poco tempo: mi ammalai , con febbri altissime, e mi rimandarono a casa.
E Scalfari?
Non posso che parlarne bene: con me è sempre stato gentile, ma non siamo mai stati intimi. Che dire di Scalfari? Ottimo organizzatore di giornali, ottimo articolista. Vanitoso. Io non credo che fosse un genio, Eugenio. Ma ha il merito di aver fondato un impero editoriale.
Mario Pannunzio?
M’invitò a collaborare al Mondo, nel ’49. Poi per caso incontrai a Marina di Pietrasanta Arrigo Benedetti, che veniva qui in villeggiatura. Al mattino facevo lunghissime passeggiate, soffrivo di depressione, pensavo di essere vicino alla morte. Mi sentii chiamare ed era Benedetti che stava sotto un ombrellone con Emilio Radius, caporedattore del suo Europeo. Era agosto e c’era il Premio Viareggio. Benedetti mi chiese di scriverne le cronache. Era un giornale bellissimo, l’Europeo: ricordo che aspettavo il sabato per leggerlo. Feci quest’insignificante articolo, che però dava la notizia di un litigio in giuria. Cominciai a collaborare, l’estate successiva Benedetti tornò qui al mare e mi disse che dovevo trasferirmi a Milano. Insegnavo in un liceo Storia e Filosofia, un bellissimo mestiere molto mal remunerato: per i quattro pezzi sull’Europeo in un mese guadagnavo 100 mila lire, il mio stipendio di professore era di 40 mila lire. Così andai a Milano e nel ’52 a Parigi, come corrispondente. Rimasi fino al ’54 quando Benedetti lasciò l’’Europeo. Allora m’ingaggiò Gualtiero Jacopetti che faceva un settimanale, Cronache. Scrivevo da Marina di Pietrasanta, ricordo che ancora non avevo il telefono: dettavo il pezzo da un apparecchio pubblico. Poi l’editore lo vendette a una cordata di cui faceva parte Arrigo Olivetti, e Cronache diventò l’Espresso: entrai automaticamente.
Lei ha detto: “Dopo Croce la cultura è stata il festival della fregnaccia irreggimentata”.
Non sono mai stato crociano, anche se apprezzavo la personalità dell’uomo. Appena finita la guerra tutta l’intellettualità che prima lo venerava, lo ha ripudiato in un attimo. Gli intellettuali italiani hanno poca indipendenza, vivono meglio in branco. Nel dopoguerra erano tutti marxisti. Poi negli anni Sessanta tutti a seguire Husserl, tutti fenomenologisti. Ora non c’è più niente.
Nel ’73 ha vinto il Premio Strega.
Sì, con Allegri, gioventù. Il premio era nato durante l’attesa degli alleati, tra il ’43 e la Liberazione. Era il premio letterario della Resistenza: vede, l’unica resistenza possibile a un certo punto è stata quella culturale. La resistenza al fascismo era stata politicamente inefficace e di scarsa consistenza: quelli in carcere e al confino erano pochi. Ma la resistenza culturale si faceva, eccome. Vinsi lo Strega con Rizzoli, l’avevo tentato nel ’65 con Mondadori. Quell’anno vinse Volponi, meritatamente, con La macchina mondiale.
Poi ha seguito le vicende dello Strega?
No, ho letto alcuni libri che hanno vinto il premio, come Canale Mussolini di Pennacchi: bellissimo.
Legge gli autori contemporanei?
Dipende cosa vuol dire contemporanei. Mi capita ancora di rileggere Giorgio Bassani. Ma ci sono grandi scrittori del primo Novecento come Pea, Tozzi, Comisso, Bartolini che non sono più letti da nessuno. Tre croci di Tozzi è un meraviglioso romanzo, va letto anche Pea, per la freschezza e l’originalità.
Cassola era un suo amico.
Un caro amico. Anche se c’è stata con lui una strana rottura. Era già cominciata la malattia, soffriva di ossessioni quando gli venne in mente la storia del disarmo unilaterale dell’Italia. Io ero incredulo, non capivo: questa sua attività divenne pressoché esclusiva, tra l’altro a danno della letteratura perché i libri che scrisse in quel periodo non erano veramente granché. Era stato di una grandissima originalità: La visita, Il cacciatore, Il soldato, Ferrovia locale, Tempi memorabili. Deve il suo successo a La ragazza di Bube, anche se a mio avviso non è il suo lavoro migliore.
Dove vi siete conosciuti?
A Roma, al Ginnasio Torquato Tasso di via Sicilia, si abitava nello stesso quartiere. Lui era un anno addietro a me, perché era più piccolo ma si andava insieme a ginnastica, due volte alla settimana. La vera amicizia è iniziata nel ’35, all’insegna dell’antifascismo: lui fondò una specie di partito, ma non s’era più di cinque...
Gli altri suoi amici scrittori sono stati Carlo Levi, Giorgio Bassani e Bianciardi.
Soprattutto Levi e Bassani. Anche Pea l’ho conosciuto: era del 1881, molto più anziano di me. Era un bellissimo vecchio, con la barba e i capelli bianchssimi. Peccato che i suoi libri siano introvabili. Ma sento che si legge sempre meno, in Italia. E pensare che io credevo che la crisi economica avrebbe portato un incremento della lettura: ero convinto che la gente si sarebbe raccolta in sé e dunque che avrebbe letto di più. Ma si vede che gli italiani sono proprio refrattari alla lettura...
@silviatruzzi1