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 2014  febbraio 25 Martedì calendario

ELIZABETH E ROBERT, AMOR DI TERRA LONTANA


Gli italiani non amano leggere gli epistolari: nemmeno quelli di Leopardi e di Manzoni. Vorrei, per una volta, che leggessero le bellissime lettere scambiate tra due dei maggiori poeti americani del secolo scorso: Elizabeth Bishop (1911 – 1979) e Robert Lowell (1917 – 1977), che Adelphi ha appena pubblicato: Scrivere lettere è sempre pericoloso , a cura di Thomas Travisano e Saskia Hamilton, nella traduzione e con un eccellente saggio di Ottavio Fatica (pagine 447, e 39). Sono divertenti, appassionate, frivole, drammatiche, angosciatissime, felici. Sullo sfondo sta la letteratura americana del ventesimo secolo, di cui la Bishop e Lowell discorrono tra loro: Ezra Pound, T. S. Eliot, Marianne Moore, e sopratutto Flannery O’Connor.
Queste lettere parlano di un amore nato nel 1947, quando Lowell aveva trent’anni e la Bishop trentasei. Entrambi erano ancora invisibili a se stessi, qualcosa che non sapevano come considerare. «Ti vedo piuttosto alta, con i lunghi capelli castani, timida ma piena di descrizioni e aneddoti come ora… Volevo farti la mia dichiarazione», scrisse Lowell molti anni dopo. Chiederla in moglie era, per lui, «la grande occasione non colta, l’unico cambiamento epocale, l’altra possibilità di vita». Ma era paurosamente terrorizzato dall’idea di guastare i loro rapporti. Non si era dichiarato; e durante tutta la sua vita pensò a questa possibilità immaginaria.
L’affetto dei due si trasformò presto in un’amicizia affettuosa: qualcosa di simile a ciò che aveva legato Lytton Strachey a Virginia Woolf. Si amavano attraverso gli oceani, si carezzavano con le parole: ognuno adorava le poesie dell’altro, come se le avesse scritte con le proprie mani. «Solo quando parlo con te — disse Lowell — riesco a esprimermi con domestichezza, con trasporto e con la dovuta discrezione». E la Bishop: «Caro Robert, se sapessi quante conversazioni immaginarie faccio con te tutto il tempo». «Quando penso a come mi sembrerebbe il mondo e la mia vita se tu non fossi presente in tutti e due — mi sembrerebbe molto vuoto, credo». «Da quando ho visto alcune delle tue poesie ho sentito un meraviglioso senso di sollievo, come se le avessi scritte io». «Tutte hanno quella presa sicura, come se tu avessi attraversato un periodo in cui qualunque cosa sembrava all’improvviso materia per la poesia — neanche materia, sembravano essere poesia, e tutto il passato era illuminato qua e là da lunghi raggi, come l’alba lungamente attesa»; «Mi ha colpito come le tue poesie mi ricordino la musica di Gesualdo. Armonie folli e sorprendenti: un pensiero semplice all’apparenza, ma reso di colpo così strano e penetrante».
* * *
Il cuore dell’esistenza di Robert Lowell erano le crisi di mania depressiva che lo aggredivano quasi ogni anno, ritmando e incupendo le lettere alla Bishop. Prima, quasi all’improvviso, era assalito da una terribile ondata di «entusiasmo»: da una specie di esplosione di tutto l’essere; da un’eccessiva esuberanza. Era una caduta nel mostruoso, che egli amava e temeva. Poi, lentamente, il delirio si volatilizzava, era avvolto da uno strano torpore; assaggiava l’ottusità e la colpa; attraversava una fase intima di irresolutezza, amnesia, inerzia, tutti vizi baudelairiani, più quello che «Baudelaire non aveva mai conosciuto» – la stupidità. Restava uno due mesi in ospedale. La condizione della mente era lucida, se egli discorreva a lungo con gli altri pazienti, e correggeva le proprie poesie.
Lowell pensò, rifletté, rimuginò e si convinse che il suo problema era la convivenza, dentro di lui, del «pugno di ferro puritano della restrizione» e delle esplosioni di pura frenesia: per scrivere, aveva bisogno di entrambe le forze che dovevano venire a patti e conciliarsi. Ma era difficilissimo. C’era sempre il rischio di cadere nella furia delle allucinazioni o di restare dolente e depresso per mesi.
Così si persuase che la psicosi depressiva era legata al suo sistema nervoso, che lo rendeva separato da tutti gli esseri umani. Poteva essere curato solo con grande pazienza. Per questo seguiva con attenzione il lavoro dello psicoterapeuta: era un po’ come smuovere il fondo di un acquario — schegge del passato venivano a galla sotto angolazioni insolite, distintamente e indistintamente. Sperava che i suoi attacchi potessero venire curati da una nuova medicina, il litio. Ma questo risultò dubbio. Molto più importante fu la convinzione che c’era, in lui, un’enorme dose di sanità, sopravvissuta e forse anche aumentata attraverso gli attacchi di molti anni. Pensando alla sua paradossale salute, si accorse che un tempo aveva voglia, o forse bisogno, di esplodere. Poi comprese che non gli piaceva più esplodere, ma aggrapparsi a tutte le cose reali che aveva a portata di mano, come la moglie e la famiglia.
Per vincere gli assalti di depressione, Lowell beveva whisky. Quando si sentiva diviso dai vivi, bere gli restituiva socievolezza, rendendo tutti gli uomini una sola nazione, nel calore, nella debolezza e nella loquacità. Era difficile astenersi da quella terribile droga. «Vorrei tanto che tu non bevessi», gli scriveva la Bishop. «So per certo che ti fa male alla salute, prima di tutto». Ma anche lei beveva. Tutti o quasi tutti i poeti di quegli anni bevevano: la società letteraria era immersa nell’alcol, sebbene non perdesse né ricchezza né forza né coscienza.
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Elizabeth Bishop parlava molto meno volentieri di se stessa di quanto lo faceva Lowell: un vero poeta, pensava, doveva nascondere l’ego e le sue, quasi sempre infelici, vicissitudini. Amava la quiete, il tono basso e distante: l’inermità, «sebbene non disgiunta dalla determinazione». Soffriva di malinconia e di solitudine: accessi di breve durata, anche due o tre volte al giorno, e poi niente per una settimana. Un giorno disse a Lowell: «Quando scriverai il mio epitaffio, devi dire che ero la persona più sola che sia mai esistita».
Nel novembre 1951, Elizabeth Bishop fece un viaggio nell’Atlantico meridionale, «chissà dove al largo della costa brasiliana», e attraversò lo stretto di Magellano. Quel continente sconosciuto la attrasse; e nel marzo 1952 scese a Rio de Janeiro, dove rimase quattro mesi presso amici brasiliani e polacchi conosciuti a New York — «uno strano guazzabuglio tri o quadrilingue che a me piace moltissimo». Senza proporselo, rimase quasi vent’anni in Brasile.
Vide le vecchie, bellissime città coloniali, ormai abbandonate; risalì il Rio delle Amazzoni; partecipò al carnevale di Rio; assistette, tra divertita e disgustata, al gioco farsesco di rivoluzioni e colpi di Stato, che costituiva la cosiddetta vita politica del Brasile. Vide i fiori, le farfalle e le libellule, come le aveva conosciute nelle poesie di Marianne Moore. «Tutti gli alberi sono in fiore, macchie delicate di colore lungo tutta la montagna e più da vicino rilucono di piccole ragnatele fluttuanti di foschia, di ragnatele d’oro, di farfalle iridescenti — questa è la stagione di quelle argenteo-azzurrine grosse e flosce, inguaribilmente inesperte, spesso smangiate, in coppia indistinta. Svolazzano sopra la nostra piccola piscina, dove cadono fiori rosa e ci sono tantissime libellule — alcune invisibili se non come puntolini di velluto, o vellutino bianco, o rosso rubino o celeste acceso — poi sotto la luce scopri che ci sono per davvero il corpo e le ali, reticolo blu acciaio».
«Qui — la Bishop scrisse a Robert Lowell — sono oltremodo felice, per la prima volta in vita mia»; «sono estremamente felice, anche se non riesco proprio ad abituarmi all’idea di essere “felice”». «Vivere qui mi ha quasi guarito». Ciò che la guarì e la rese felice fu sopratutto la conoscenza di Lota de Maceto Soares, una famosa urbanista, con la quale visse per molti anni, nella sua ricca tenuta di Pétropolis a sessanta chilometri da Rio. Lota la amò, come un’amante possessiva e una madre: riempì quasi interamente la sua vita; e le impedì di ritornare negli Stati Uniti, sebbene il Nord mancasse moltissimo alla Bishop.
Nel settembre 1966, Lota Soares ebbe «quello che si direbbe un esaurimento nervoso»: il 19 settembre, appena giunta a New York, si uccise con una overdose di tranquillanti. La Bishop fu disperatissima. Scriveva a Lowell: «Lota mi manca ogni giorno di più, ho paura… Riesco a stento a rimanere a galla». Ma presto si accorse di possedere ciò che Lota ammirava in lei: quell’indomabile giovinezza ed energia americana, che fino allora si era sempre nascosta sotto la quiete, la malinconia e l’amore per la solitudine. Le pareva di essere in una grotta. Dopo essere andata avanti per ore, intravedeva in lontananza la luce del giorno — un vago barlume azzurrino che non le era mai parso così meraviglioso. Era un sia pur vago barlume, che le diceva che stava per venir fuori dalla sventura.
Qualche anno dopo, la Bishop osò scrivere: «Sono così di buon umore tutto il tempo che non riesco a crederci». Era tornata negli Stati Uniti, dove insegnava all’università, sebbene detestasse l’insegnamento, e leggeva in pubblico le sue poesie. Viveva con una nuova compagna, Alice. Beveva: soffrì di delirium tremens e di allucinazioni; e per vincere l’alcol, le allucinazioni e l’artrite prendeva sedici aspirine al giorno. Morì, a Boston, il 6 ottobre 1979. Robert Lowell era morto due anni prima, di infarto, in un taxi che lo portava dall’aeroporto a New York.