Ivo Romano, Avvenire 2/2/2014, 2 febbraio 2014
IL RUGBY PER ESEMPIO
Franco, nome proprio di persona. E franco, aggettivo. Nel senso di leale, ma anche intrepido, coraggioso, libero. Franco, come Franco Ascantini, sannita trapiantato a Roma, una vita per il rugby. E “Franco come il rugby”, verità indubbia, ma pure titolo di un libro, una conversazione tra Ascantini e l’autore (Antonio Falda), che abbraccia decenni di vita, vissuta dentro o ai margini di un campo da rugby. Viaggia verso gli 80, Franco Ascantini, conosciuto come “il professore”. Dell’Italia ovale è memoria storica, oltre che protagonista assoluto, da giocatore prima e allenatore poi (anche in Nazionale, al fianco di Pierre Villepreux), attraversando l’Italia intera, da San Donà a Piacenza, da Roma aViterbo, a Benevento, a Napoli. Più che uno sport, per lui, una ragione di vita. E ancor più, un’àncora di salvezza per l’Italia.
Colpisce una frase nel suo libro: il rugby può cambiare l’Italia. Perché?
«È una frase scritta per la prima volta da Peppe D’Avanzo, compianto giornalista di Repubblica, appassionato di rugby, mio allievo e amico, una frase che racchiude il senso dei nostri lunghi dialoghi, parlando di rugby e di vita, di fianco a un campo o entrambi in bici, lungo una pista ciclabile, altra passione comune. Siamo anche andati oltre quella frase, già forte: non solo il rugby può cambiare l’Italia, ma forse è l’ultima speranza per cambiare il nostro Paese».
Siamo messi così male?
«Purtroppo, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Lo scadimento morale è palese e generalizzato, anche se, per fortuna, le eccezioni non mancano».
E come può incidere il rugby?
«Una premessa è d’obbligo: lo sport in generale può aiutare a migliorare un Paese. Perché l’attività sportiva è basilare nella formazione dell’individuo, del cittadino. Lo sport forma il carattere e inculca principi positivi. Un esempio, in tal senso, è rappresentato dai paesi anglosassoni».
Perché in Italia non accade?
«Perché da noi fa difetto la cultura sportiva. È un discorso ampio, che affonda le radici nel mondo della scuola, fino ad arrivare alla pratica sportiva giovanile. Le faccio qualche esempio. Ai tempi in cui sostenni gli esami per l’accesso all’Isef eravamo in 50: ebbene, soltanto in due, io e Fritz Dennerlein, eravamo ex atleti, secondo me una prerogativa fondamentale per l’insegnamento. Il primo Istituto scolastico in cui insegnai non era neppure dotato di una palestra. Quando, invece, arrivai in una scuola dotata di palestra e cominciai a insegnare secondo i miei principi, un collega mi disse: ma cosa ti sei messo in testa, qui giochiamo al calcio e basta. Quando divenni istruttore federale di rugby, poi, fui costretto a impedire per regolamento l’accesso dei genitori dei ragazzi a bordo campo: la loro antisportività era insopportabile. Ecco, questo è il livello. E partendo da queste basi non si va da nessuna parte...».
Perché proprio il rugby dovrebbe cambiare questo status quo?
«Perché il rugby ha in sé determinate peculiarità che ad altri sport sono talvolta sconosciute. Nel rugby la competizione è importante, anche molto aspra, per via della stessa essenza di questa disciplina. Ma uno degli insegnamenti fondamentali è lottare in campo, sempre nel rispetto di compagni, avversari e arbitri. La lealtà, innanzitutto. E se ciò avviene in campo, anche gli spettatori comprenderanno il significato di certi comportamenti. È accaduto anche questo, da quando l’Italia è entrata nel Sei Nazioni. Il rugby ha attratto nuovo pubblico, oltre che quello degli appassionati: col passar del tempo, anche i neofiti stanno comprendendo qual è lo spirito di questo sport».
Il professionismo non rischia di cambiare il rugby, prima che questo cambi il Paese?
«I rischi esistono, purtroppo. Quando in ballo ci sono tanti soldi, c’è sempre la possibilità che si sviluppi un processo degenerativo. Ad esempio, a me non piace l’eccesso di stranieri nei club, fenomeno che non è solo italiano. Al netto di possibili storture, comunque, il rugby resta isola felice».
È cominciato il Sei Nazioni, l’Italia è partita perdendo onorevolmente ieri in Galles.. .
«Sono di madre gallese, conosco quel Paese e la sua cultura, tipicamente anglosassone. Se il rugby è un’isola felice, l’esperienza di una partita del Sei Nazioni a Cardiff ne è la migliore dimostrazione: un popolo intero che si muove verso la capitale al seguito di una Nazionale e nel nome di una bandiera, un’atmosfera calda e coinvolgente, con i tifosi di casa e quelli ospiti che socializzano nei pub, davanti a una birra. E poi, la partita, altro spettacolo. Lo spirito del rugby, appunto».
Parole sue: «cultura e tradizione di un Paese devono caratterizzare il gioco della Nazionale». L’Italia attuale rispecchia questa visione?
«Sì e aver scelto per la panchina Brunel, un francese, va in questa direzione, come accaduto in passato con altri tecnici. Penso sia inutile e controproducente cambiare spesso, magari affidandosi a tecnici provenienti da paesi di culture differenti. Un sudafricano, ad esempio, tenderà sempre a imporre un credo vicino a quello del suo rugby, che poggia le sue fondamenta su potenza e forza. Ma a un italiano, per cultura e indole, non puoi chiedere di sbattere contro un muro fino a farlo crollare. Un italiano che si trovi dinanzi a un muro andrà sempre alla ricerca di una chiave per entrarci senza sbatterci contro. Siamo latini, abbiamo certe caratteristiche, sono quelle che vanno sfruttate. E un tecnico francese è l’ideale per imboccare questa strada».