Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 02 Domenica calendario

IL RUGBY PER ESEMPIO

Franco, nome proprio di persona. E franco, aggettivo. Nel senso di lea­le, ma anche intrepido, coraggio­so, libero. Franco, come Franco A­scantini, sannita trapiantato a Ro­ma, una vita per il rugby. E “Fran­co come il rugby”, verità indubbia, ma pure titolo di un libro, una conversazione tra Ascantini e l’autore (Antonio Falda), che ab­braccia decenni di vita, vissuta dentro o ai mar­gini di un campo da rugby. Viaggia verso gli 80, Franco Ascantini, cono­sciuto come “il professore”. Dell’Italia ovale è memoria storica, oltre che protagonista asso­luto, da giocatore prima e allenatore poi (anche in Nazionale, al fianco di Pierre Villepreux), at­traversando l’Italia intera, da San Donà a Pia­cenza, da Roma aViterbo, a Benevento, a Napoli. Più che uno sport, per lui, una ragione di vita. E ancor più, un’àncora di salvezza per l’Italia.

Colpisce una frase nel suo libro: il rugby può cambiare l’Italia. Perché?
«È una frase scritta per la prima volta da Peppe D’Avanzo, compianto giornalista di Repubbli­ca, appassionato di rugby, mio allievo e amico, una frase che racchiude il senso dei nostri lun­ghi dialoghi, parlando di rugby e di vita, di fian­co a un campo o entrambi in bici, lungo una pi­sta ciclabile, altra passione comune. Siamo an­che andati oltre quella frase, già forte: non solo il rugby può cambiare l’Italia, ma for­se è l’ultima speranza per cambiare il nostro Paese».

Siamo messi così male?
«Purtroppo, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Lo scadimento morale è palese e generalizzato, an­che se, per fortuna, le eccezioni non mancano».

E come può incidere il rugby?
«Una premessa è d’obbligo: lo sport in genera­le può aiutare a migliorare un Paese. Perché l’at­tività sportiva è basilare nella formazione del­l’individuo, del cittadino. Lo sport forma il ca­rattere e inculca principi positivi. Un esempio, in tal senso, è rappresentato dai paesi anglo­sassoni».

Perché in Italia non accade?
«Perché da noi fa difetto la cultura sportiva. È un discorso ampio, che affonda le radici nel mon­do della scuola, fino ad arrivare alla pratica spor­tiva giovanile. Le faccio qualche esempio. Ai tempi in cui sostenni gli esami per l’accesso al­­l’Isef eravamo in 50: ebbene, soltanto in due, io e Fritz Dennerlein, eravamo ex atleti, secondo me una prerogativa fondamentale per l’inse­gnamento. Il primo Istituto scolastico in cui insegnai non era neppure dota­to di una palestra. Quando, in­vece, arrivai in una scuola dotata di palestra e co­minciai a insegnare secondo i miei prin­cipi, un collega mi disse: ma cosa ti sei messo in testa, qui giochiamo al calcio e basta. Quando divenni i­struttore federale di rugby, poi, fui costretto a impedire per regolamento l’accesso dei genito­ri dei ragazzi a bordo campo: la loro antisporti­vità era insopportabile. Ecco, questo è il livello. E partendo da queste basi non si va da nessuna parte...».

Perché proprio il rugby dovrebbe cambiare questo status quo?
«Perché il rugby ha in sé determinate peculia­rità che ad altri sport sono talvolta sconosciute. Nel rugby la competizione è importante, anche molto aspra, per via della stessa essenza di que­sta disciplina. Ma uno degli insegnamenti fon­damentali è lottare in campo, sempre nel ri­spetto di compagni, avversari e arbitri. La lealtà, innanzitutto. E se ciò avviene in campo, anche gli spettatori comprenderanno il significato di certi comportamenti. È accaduto anche que­sto, da quando l’Italia è entrata nel Sei Nazioni. Il rugby ha attratto nuovo pubblico, oltre che quello degli appassiona­ti: col passar del tempo, anche i neofiti stanno com­prendendo qual è lo spirito di questo sport».

Il professionismo non rischia di cambiare il rugby, prima che questo cambi il Paese?
«I rischi esistono, purtroppo. Quando in ballo ci sono tanti soldi, c’è sempre la possibilità che si sviluppi un processo degenerativo. Ad e­sempio, a me non piace l’eccesso di stranieri nei club, fenomeno che non è solo italiano. Al net­to di possibili storture, comunque, il rugby re­sta isola felice».

È cominciato il Sei Nazioni, l’Italia è partita per­dendo onorevolmente ieri in Galles.. .
«Sono di madre gallese, conosco quel Paese e la sua cultura, tipicamente anglosassone. Se il rugby è un’isola felice, l’esperienza di una par­tita del Sei Nazioni a Cardiff ne è la migliore di­mostrazione: un popolo intero che si muove verso la capitale al seguito di una Nazionale e nel nome di una bandiera, un’atmosfera calda e coinvolgente, con i tifosi di casa e quelli ospi­ti che socializzano nei pub, davanti a una birra. E poi, la partita, altro spettacolo. Lo spirito del rugby, appunto».

Parole sue: «cultura e tradizione di un Paese de­vono caratterizzare il gioco della Nazionale». L’Italia attuale rispecchia questa visione?
«Sì e aver scelto per la panchina Brunel, un fran­cese, va in questa direzione, come accaduto in passato con altri tecnici. Penso sia inutile e con­troproducente cambiare spesso, magari affi­dandosi a tecnici provenienti da paesi di cul­ture differenti. Un sudafricano, ad esempio, tenderà sempre a imporre un credo vicino a quello del suo rugby, che poggia le sue fonda­menta su potenza e forza. Ma a un italiano, per cultura e indole, non puoi chiedere di sbat­tere contro un muro fino a farlo crollare. Un italiano che si trovi dinanzi a un muro an­drà sempre alla ricerca di una chiave per entrarci senza sbatterci contro. Siamo lati­ni, abbiamo certe caratteristiche, sono quelle che vanno sfruttate. E un tec­nico francese è l’ideale per im­boccare questa strada».