Michele Brambilla, La Stampa 11/1/2014, 11 gennaio 2014
NEI TRIBUNALI LA STORIA NON FINISCE MAI
Finalmente abbiamo capito di che cosa avrebbe bisogno la Giustizia italiana: di una macchina del tempo. Di quelle che si vedevano una volta nei film di fantascienza. Una macchina che permetta di tornare indietro negli anni, spesso anche nei decenni, e che dia la possibilità di cambiare quanto è già avvenuto.
Solo così la Giustizia italiana potrebbe garantire ai cittadini una giustizia. Senza quella macchina miracolosa, siamo condannati a recriminare su quel che poteva essere e non è stato.
Una giustizia tardiva, infatti, non è mai una giustizia. Anche se la sentenza ricostruisce la verità dei fatti. Prendiamo il caso della decisione assunta ieri dai giudici del Tar del Piemonte. Hanno deciso che le elezioni regionali del 2010 non possono essere convalidate, e quindi che vanno rifatte. Ma anche ammesso (e assolutamente non concesso, visto l’andazzo) che questa decisione del Tar piemontese diventi rapidamente definitiva, si andrebbe a rivotare poco prima della scadenza naturale, che è il 2015: quindi, più che parlare di elezioni ripetute, bisognerebbe parlare di elezioni anticipate.
Questo è un primo esempio che dimostra l’ingiustizia della Giustizia tardiva. Il secondo è ancora più evidente: gli atti compiuti in questi quattro anni dalla Regione Piemonte sono dunque da considerarsi nulli? Che succederà dei contratti, dei pagamenti, delle assunzioni? E i consiglieri regionali dovranno tutti restituire lo stipendio? Diciamo la verità: facciamo fatica a trovare, all’estero, situazioni analoghe. Una giustizia così lenta ci condanna a essere un Paese senza credibilità. Anche perché – e qui veniamo al punto – quanto è successo per questa storia del Piemonte non è un’eccezione: le sentenze tardive, in Italia, sono la norma, o quasi.
Mezzo secolo fa, più o meno, fece epoca la storia di un tizio condannato all’ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere. Stava marcendo in galera quando si scoprì che il presunto morto era vivo e sano come un pesce. Siccome la sentenza di condanna era però ormai passata in giudicato, per uscire di cella il poveraccio dovette chiedere la grazia al Presidente della Repubblica.
Un caso più unico che raro, si disse allora. Ma gli ultimi decenni ci hanno drammaticamente abituati alle sentenze da «Storia illustrata». Piazza Fontana, ad esempio. Secondo la vulgata, non è mai stata raggiunta una verità giudiziaria. Ma non è vero. Qualche anno fa – ossia un trentennio abbondante dopo i fatti – la magistratura ha stabilito che a mettere la bomba furono quelli della cellula veneta di Ordine Nuovo, con tanto di nomi e cognomi. Ma siccome costoro erano già stati assolti con una sentenza passata in giudicato, e siccome in Italia non si può processare una persona due volte per lo stesso reato, invece dell’ergastolo ci si è dovuti accontentare di una bella reprimenda scritta.
Anche per la strage di Brescia è andata così. Ci sono stati quattro filoni di processi, con decine e decine di imputati. Alla fine, tutti assolti. Ma nel 2012, trentotto anni dopo quella bomba e quei morti. L’ingiustizia c’è in ogni caso: se i colpevoli l’hanno fatta franca e se gli innocenti sono dovuti stare così a lungo sulla graticola. E Ustica? Vogliamo parlare di Ustica? Ci sono voluti più di trent’anni per dire sì a un risarcimento ai familiari, e per giunta la faccenda non è ancora chiusa. Sarebbe una barzelletta, se non ci fosse da piangere.
Abbiamo citato casi venuti alla ribalta della cronaca. Ma la vita ordinaria degli italiani è zeppa di cause civili che non finiscono mai, di gente truffata che si vede riconosciute le proprie ragioni quando i truffatori sono falliti oppure morti. Si parla tanto di tasse, quando si cerca di capire perché molti imprenditori italiani vanno all’estero: ma in realtà uno dei principali motivi per cui tante aziende emigrano è la lentezza della giustizia civile, o meglio la sua inettitudine.
La morale è semplice. La questione giustizia è stata agitata, in questi anni, da una persona troppo coinvolta per essere credibile. Non era lui, che poteva metterci dentro le mani. Ma qualcuno ce le deve mettere, e al più presto.