Renato Franco, Corriere della Sera 20/12/2013, 20 dicembre 2013
SATURNINO, DA JOVANOTTI A VOLTO TV «LA MIA SFIDA PARTITA DAL PUNK»
«Sei libero per i prossimi sei mesi? Da lì sono passati 23 anni». Da allora tira le corde (del basso) per Jovanotti. È partito dalla punk Ascoli Piceno per arrivare a suonare a New York. Saturnino Celani, di anni 44. Nome vero, non d’arte: «Anche Nino Manfredi si chiamava Saturnino, è un omaggio a mio zio scomparso in giovane età. È un nome che mi ha aiutato tantissimo perché non è mimetico, subito si ricordano di te». Un nome venuto buono anche per la sua collezione di gioielli, gli anelli di Saturnino... Ascoli Piceno punk? È sicuro? «Quando sono cresciuto io c’era una grandissima influenza punk con un grande movimento. Un inglese spostato con un’ascolana lavorava nell’entourage degli ex Joy Division e aveva portato questa ventata di novità che si propagava a macchia d’olio. Erano tutti punk/new wave. Io suonavo con tre gruppi diversi: uno punk rock, uno heavy metal e uno che faceva la parte americana della fusion, cercavo di capire quale fosse il mio stile preferito». Poi nel dubbio li ha abbandonati tutti e tre.
Ora ha debuttato anche in tv su La7 con Guerrieri – Storie di chi non si arrende (ancora per oggi e venerdì prossimo, ore 22.40), un programma realizzato in collaborazione con Enel e Fremantlemedia. Storie di uomini e donne che non cedono davanti alle difficoltà, «persone dotate di grande forza di volontà, che perseguono i propri obiettivi nonostante tutto e tutti». Esperienza estemporanea quella televisiva o no? «Navigo a vista, in questo caso poi non sono un conduttore, ma il narratore, è come se fossi la voce dell’audio libro», anche se poi la faccia e gli occhiali ce li mette.
Racconta: «Si dice che molti lasciano la loro vera passione per continuare gli studi, io ho fatto esattamente il contrario: ho lasciato gli studi classici musicali, il violino, e l’istituto tecnico industriale al secondo anno e mi sono dedicato completamente al basso elettrico, lo strumento della mia presa di coscienza». A 18 anni si trasferisce a Milano, «la città musicalmente più viva, è una piccola Los Angeles». I genitori, ovvio, sono preoccupati: «Mi ero dato tre anni di tempo. A loro chiesi di sostenermi come se fossi andato a fare l’università. Se non fossi riuscito, sarei tornato a lavorare con mio papà che ha un’attività di trasformazione del plexiglass. Ha 80 anni e lavora ancora. Lui, mia madre e un operaio in un capannone nella zona industriale di Ascoli Piceno. Insomma avevo il piano A e il piano B».
Nel frattempo a una fiera di strumenti musicali a Pesaro aveva conosciuto il produttore Michele Schembri: «Chiamami se vieni a Milano». È il suo secondo grado di separazione con Jovanotti («credo profondamente nella teoria dei sei gradi di separazione, ne sono l’esempio vivente»). Parte il domino delle conoscenze. L’artista Robert Gligorov per cui fa anche l’autista; Bruno Tibaldi della Polygram; che gli presenta il bassista Patrick Djivas («un idolo vivente per me») che frequenta lo stesso studio dove Jovanotti si è trovato a registrare «Una tribù che balla»: «Era il 1991 e stavano per scadere i tre anni». È la sua sliding door. «Lorenzo è istintuale e istintivo, mi ha sentito suonare “Libera l’anima”, il primo take che ho fatto con lui era buono. A quel punto mi fa: “Sei libero per i prossimi sei mesi?”. Da lì sono passati 23 anni».
Prosegue: «A Lorenzo voglio bene come a uno di famiglia. Anzi di più. Abbiamo condiviso gioie e dolori della vita, non solo della musica. Abbiamo un rapporto molto profondo». La sua qualità umana? «Ti coinvolge con una generosità incredibile. Il secondo anno che lavoravo con lui mi sono trovato coautore di quattro brani di successo, nati suonando in studio. Lorenzo mi ha regalato il sogno di poter vivere di musica». Mai un litigio? «C’è stato un momento in cui ci sono state persone che cercavano di inquinare il nostro rapporto, creavano zizzania, ci mettevano contro, ma le bugie hanno le gambe corte. Stare vicino a Lorenzo può creare gravi problemi all’ego, se ti monti la testa puoi pensare di essere tu l’artefice di un qualcosa, ma tu sei un ingrediente. Forse non è un caso che io collabori con lui da 23 anni. Problemi con l’ego non ne ho mai avuti. Il successo è come giocare a poker, ogni volta ridai le carte: io sono sempre uguale, a volte cambia il modo di percepirti degli altri».
Cosa le chiedono quando torna a Ascoli? «Jovanotti che dice?».
Renato Franco
@ErreEffe7