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 2013  dicembre 20 Venerdì calendario

LO ZIO BERGOMI «CHE SPETTACOLO IL TRAP E RONALDO»


È il destino. Compiere 50 anni nel giorno del derby. Succede domenica a Giuseppe Bergomi, lo zio del calcio italiano, nato a Settala il 22 dicembre 1963: sarà a San Siro e commenterà Inter-Milan per Sky. Il tempo passa, anche se il difensore che ha giocato 758 partite ufficiali in nerazzurro (519 in campionato, 117 nelle coppe europee, 122 in Coppa Italia, 28 gol in tutto) appare molto più giovane rispetto al gennaio 1980, quando Marini, vedendolo nello spogliatoio dei grandi con i baffoni, gli aveva chiesto: «Quanti anni hai?». «Quasi diciassette». «Ma figurati, sembri mio zio». Quello che conta non è l’età, ma lo spirito: «A me questi 50 anni non pesano, anche se mia figlia dice che ormai sono vecchio e si parla di rottamazione per chi ha più o meno questa età. Io mi sento bene, ho tanta energia, idee, voglia di fare e passione per il calcio». È per questo che allena la Berretti del Como; è per questo che è la «voce tecnica» per definizione di Sky. Una storia che va avanti da 14 anni. «Estate 1999: ero in vacanza a Selvino, perché ormai avevo chiuso con l’Inter, dopo l’arrivo di Lippi; mi volevano i Metrostars, ma negli Usa c’era un problema con gli stranieri; Arrigoni, allora direttore di Telepiù e Caressa mi convocano per un provino, con commento di vecchie partite; è andata bene e dal Trofeo Berlusconi dell’agosto 199 vado avanti, perché il calcio resta una cosa meravigliosa. E per la tv ho rinunciato anche a una carriera di allenatore, contentissimo di questa scelta».
Anche se sono passati 32 anni (22 febbraio 1981), Bergomi non ha dimenticato l’esordio in A (quello assoluto era stato a Torino in Coppa Italia contro la Juve, 30 gennaio 1980): «Il sabato sera Canuti aveva avuto un attacco di appendicite; comincia la partita con il Como e Vierchowod mette fuori causa Oriali (ginocchio). Bersellini fa scaldare Pancheri, poi anche me e alla fine a entrare sono io. È cominciata così la mia storia con l’Inter, un film lungo una vita». E tredici allenatori: «Da tutti ho imparato qualcosa. Il periodo migliore è stato con Trapattoni, perché quella era una squadra che vinceva, scudetto, Supercoppa, Coppa Uefa, la prima delle mie tre, 26 anni dopo l’ultimo trofeo internazionale. Ma devo molto a Bersellini, che mi ha lanciato; quando nel maggio 1984, il nuovo presidente, Pellegrini, aveva deciso di mandare via Radice, io ero in nazionale e mi ero messo a piangere, per dire di quanto fossi legato a lui e lui a tutti noi. E non dimentico Bagnoli che, arrivando nel 1992, mi aveva detto: ma dove vuoi che vada a prendere uno più forte di te? Oppure Simoni. Nel 1997, io avevo già 34 anni e lui, all’inizio della stagione, è stato molto chiaro: io non guardo alla carta d’identità. Se sei in forma, giochi. Sono andato al Mondiale. Con Hodgson il rapporto non è stato subito perfetto, ma mi ha insegnato cose che propongo anche ora da allenatore dei ragazzi».
Degli stranieri che hanno giocato con lui, Bergomi ne ricorda tre: «Ronaldo è stato il più grande; Matthaeus aveva una carica vincente incredibile; Rummenigge è stato un uomo di una classe immensa, in campo e fuori». La miglior partita dello zio non è stata il derby dell’11 dicembre 1988 (1-0, assist per il colpo di testa di Serena), ma «Inter-Juve 4-0 dell’11 novembre 1984; mai giocato così bene, da libero». E poi c’è stata la nazionale: «Per me ha contato tantissimo; resto del parere che la maglia azzurra ti dà un’emozione che nel club non arrivi a vivere. Bearzot con me è stato una guida eccezionale, gli devo molto. Ho fatto quattro Mondiali, ne ho vinto uno a 18 anni e mezzo e ho capito dopo un po’ che cosa volesse davvero dire. Ne ho perso un altro nel 1990, con una squadra che dominava le partite, giocando un grande calcio e quella rimane una ferita aperta, anche pensando all’affetto della gente che ci aveva accompagnato in tutto quel Mondiale».
La vita continua: «Il calcio è cambiato in maniera totale rispetto a quando ho cominciato io, ma è il mondo che è cambiato. Adesso vedo ragazzi più maturi e più informati, con un altro tipo di valori rispetto a noi. Ma non sarò io a dire che era meglio ai miei tempi, anche se non ho rimpianti. Bisogna guardare al futuro».
Fabio Monti