Edoardo Vigna, Sette 20/12/2013, 20 dicembre 2013
«CREDETEMI, NAPULE È TUTTA N’ATA STORIA...»
[Intervista a Pino Daniele] –
«Napul’è mille culure, Napul’è mille paure...”. Era il 1977. Oggi, Pino Daniele che parole aggiungerebbe?
«Napul’è... un insieme di razze diverse. Africani, cinesi... in questo, è differente rispetto ai tempi miei. Sta diventando come San Francisco. Gli stranieri che arrivano sono spesso armati di buona volontà, famiglie di brave persone, per le quali la prima piattaforma, al centro del Mediterraneo, è Napoli. Certo, un emigrato si sente sempre emigrato, com’è stato per gli italiani partiti per l’America. E per noi c’è il contrasto con una cultura totalmente diversa. Ma ci abitueremo a vivere insieme, cercando di accettarci».
Il bluesman cantore di Napoli sta provando una chitarra nuova nel suo studio, a Roma, dove ormai vive. «L’aspettavo da tempo. È una Sadowsky, le fa un artigiano di New York... Io sono fissato con queste corde di nylon elettrificate, sono stato uno dei primi a usarle». Tra pochi giorni torna nella sua città: cinque serate-evento dal titolo Napule è-Tutta n’ata storia dedicate al progressive napoletano, la corrente che – dagli Anni 70 – ha messo la città campana al centro della scena musicale. Pino Daniele ne “racconterà” la storia con altri 67 artisti napoletani, dagli storici collaboratori James Senese e Tullio De Piscopo agli Almamegretta, passando per Eugenio Bennato e Teresa De Sio. «Vorrei far capire ai giovani l’importanza di quel periodo, che fece nascere una nuova creatività nella musica italiana e internazionale. Loro vivono in un tempo in cui il mestiere della musica s’è trasformato. C’è internet, ma il mercato non c’è più, e mancano investimenti sui talenti. Anche il rapporto con lo strumento è diverso: noi eravamo legati al virtuosismo, ai gruppi. Quando sono usciti i Genesis, quanti ne sono nati? Si andava nelle cantine... Oggi magari in cantina si mettono con i computer».
Sarà una bella rimpatriata.
«Attenzione: non è affatto un’“operazione nostalgia”».
Ma allora perché riunire tutti questi amici?
«È la testimonianza di una scuola musicale – come ce ne furono altre, in quegli anni, a Genova, Roma, Milano. Mi sono accorto che i pezzi di allora, contaminazione di musica moderna e tradizioni – a partire dai miei, Nero a metà o Terra mia – sono diventati “parte” della città. Fatto di costume: come il Napoli di Maradona o la musica del grande Carosone. Riproporre tutto ciò ai giovani che non l’hanno vissuto mi è sembrato interessante. Anche perché nella città, ora, non c’è nulla».
In che senso?
«Che le istituzioni non promuovono niente».
E questo perché?
«Non hanno il budget, e vista la situazione finanziaria di questo governo, è un’utopia andare a chiedere soldi per iniziative culturali. Di questo si tratta, per me: fare cultura. La vivo come un ricordo delle cose che fanno parte di un patrimonio di quella generazione».
Che cosa avevate di speciale?
«La musica era vissuta diversamente: come messaggio sociale. E politico. Il grande consenso che aveva – anche con la vendita dei dischi, che rappresentava un mercato da milioni di copie e fatturati alti pure per l’industria – ci dava la possibilità di usare questo linguaggio come strumento di aggregazione. E di protesta. L’avevamo imparato dal famoso festival di Monterey, in California alla fine degli Anni 60. La musica era pure il collante della beat generation... Ma non c’era la Rete, che ha cambiato tutto».
Quindi un movimento come quello non può esserci ancora.
«No. Sono cambiate le esigenze e il sistema di vita delle persone. Non voglio dire che non possa essercene uno diverso. Ho scoperto nei rapper un modo di denuncia personale, legato alla vita delle città italiane e diverso da quello delle città americane ed europee. Però tutta la cultura internazionale si sta massificando...».
Suona sinistro.
«Ci sono lati positivi e negativi, come in tutte le cose. È chiaro che, cambiando il sistema di comunicazione, cambia tutto: il consumo, la divulgazione... La gente vive e brucia ogni cosa velocemente, e non più – come abbiamo potuto fare noi – con il tempo giusto e il dovuto pensiero. Uno dei risultati, purtroppo, è che ormai si usa offrire alla gente ciò che vuole, e non più proporre i valori che noi consideriamo giusti».
Come vive questo cambiamento?
«A 59 anni non puoi modificare completamente il tuo Dna. Io osservo molto, e a volte mi adeguo ai sistemi di vita attuali. A volte, invece, ricorro ai miei vecchi valori e alle cose sicure».
Per esempio?
«Prima, per promuovere un disco nuovo, andavi in tv poi facevi la tournée, e questo bastava. Ora è il contrario. Però la musica è sempre la musica, ciò che le dai, a cominciare dalla disciplina dello studio, te lo restituisce. E questi concerti napoletani saranno, appunto, la testimonianza di gente che è riuscita, attraverso gli strumenti, a dar voce a una città. Mostreremo “the way we do it”, la strada che facciamo, a chi viene dopo di noi».
Le nuove generazioni.
«Tra gli altri, accanto a Enzo Gragnaniello, grande poeta napoletano e mio amico d’infanzia – eravamo insieme alle elementari! – e al recupero delle sonorità di ’500 e ’600 della Nuova Compagnia di Canto Popolare, abbiamo chiamato artisti come il rapper Clementino, che è giovanissimo. L’altra sera ero a suonare con i Negramaro: Giuliano (Sangiorgi, ndr) ha voluto fare con me Quanno chiove e Napul’è, ed era emozionato perché ha cominciato con quelle canzoni. Trovarsi insieme può servire per definire un percorso nuovo».
Uno degli ultimi concorrenti di X Factor, Andrea, ha voluto interpretare Je so’ pazzo, successo del ’79. Come possono, i ventenni, raccogliere le sue canzoni?
«È una soddisfazione. Chissà, magari hanno vissuto la mia musica attraverso i loro genitori».
Se avesse 20 anni, Pino Daniele ci andrebbe a un talent?
«E perché no? Ho i figli giovani (Daniele ne ha cinque: due grandi, di 36 e 35 anni, tre più piccoli, di 18, 12 e 8, ndr), li guardo in tv con loro: sono la proposta musicale che piace alle nuove generazioni di tutto il mondo. Ecco, magari si basa sulla competizione “all’americana” più che sul contenuto, e si dà il premio all’esecutore: mi piacerebbe una sezione per chi scrive musica. Ma il rinnovo che rappresentano mi piace. Io però non amo le competizioni: non ho mai fatto neppure Sanremo! Sono per il dialogo, ho cercato di imparare “facendomela” con quelli bravi: Al Di Meola, Pat Metheny, Eric Clapton...».
Negli Anni 80, lei, Massimo Troisi e altri, eravate il simbolo di una Napoli in grande fermento. Oggi la città sembra spenta...
«Non è così: oltre ad Almamegretta e Clementino, ci sono chitarristi come Antonio Onorato, gruppi che cantano in inglese come Planet Funk, c’è un sottobosco che viene da cose estreme politiche. E c’è Alessandro Siani, che sta avendo successo nel cinema: certo, è diverso da Troisi, ma non è giusto paragonarlo a lui, come non era giusto paragonare Massimo a Eduardo. Sono momenti, stati e situazioni diversi».
Quindi Neapolis, “città nuova”, non è ferma al passato.
«No, anzi, si rinnova sempre, nonostante la grande difficoltà di viverci».
Molti giovani sono andati via.
«Eh no! Questo non è un problema solo di Napoli, ormai. È nazionale. Quanti professionisti bravi sono dovuti andare all’estero per trovare il modo di esprimersi».
Una recente classifica ha messo Napoli in coda fra le città italiane per tenore di vita, affari, servizi, ordine pubblico.
«Questa mania delle classifiche! Guardi, non è che questa città abbia problematiche che le altre non hanno. Genova, Roma, Milano: la mentalità bastarda e criminale purtroppo è diffusa ovunque. Marsiglia è peggio di Napoli. È chiaro che si deve combattere, ma lo si può fare con un’operazione didattica nelle scuole e dando la possibilità ai giovani di trovare lavoro: non è possibile pensare che un ragazzo studi per anni per laurearsi e poi non riesca a trovare nemmeno un posto da cameriere».
La questione “munnezza” veniva già fuori nelle sue canzoni di 30 anni fa.
«Non diciamo che non è cambiato niente. Si è cercato, qualcosa è cambiato. Le istituzioni hanno pure fatto delle cose».
Cioè?
«Negli Anni 80 abbiamo avuto dei politici importanti. Che hanno cercato di combattere almeno in parte i problemi».
Ma perché un dramma come la Terra dei Fuochi non fa scatenare una rivoluzione?
«Non c’è lo spirito. Il discorso di Che Guevara all’Onu, è una delle cose più belle che abbia visto: ma a noi manca quel tipo di “sang’ all’uocchie”, come si dice a Napoli. E poi va presa coscienza che una rivoluzione – in questo momento – rischierebbe di provocare la distruzione totale di ciò che è rimasto: oggi si deve costruire con la pace».
Se, in particolare, fosse nei panni del sindaco De Magistris...
«Per carità, non saprei cosa fare. Io faccio musica, non politica».
Sì, ma lei su che cosa farebbe leva per risollevare la città?
«Sono un musicista... sulla cultura, senz’altro! Viviamo in un Paese che ha il 70-80% del patrimonio artistico e culturale del mondo. Antonio Bassolino, con tutte le critiche di questo mondo, era vicino a questo tipo di pensiero. Ai suoi tempi, realizzammo cose importanti. Il porto di Napoli: non dimentichiamo com’è stato rimesso a nuovo, è stato un lavoro grosso. Ci si scorda delle cose belle che un uomo realizza. Vengono fuori solo i compromessi che uno – purtroppo – talvolta deve fare. L’era Bassolino è stata proficua: in tutte le piazze c’erano teatri, è stata ripristinata la Piedigrotta napoletana. È chiaro che sono stati spesi un sacco di soldi, e che chissà quanta gente mangia intorno alle cose...».
Beh...
«...ma qui il punto è un altro e cioè che c’è stato il recupero della cultura in un certo modo. Bisogna dar conto alla sinistra “vecchia” del recupero di queste cose. Io, tra sinistra e destra attuali, non trovo una collocazione».
E un Masaniello alla Grillo, come lo vede?
«Un arruffapopolo... Non può essere reale. Comunque la politica oggi è complicata per tutti, e io non sono in grado di giudicare. Oltre al fatto che Grillo ha fatto una grande operazione».
Quando uscì Gomorra, lei sottolineò che le dispiaceva che si desse un’immagine negativa della città.
«Non è che mi dispiacesse... Era una testimonianza di una realtà che purtroppo esiste. Ben venga, Roberto Saviano, che ha pagato e contina a pagare di persona il suo impegno. Ha dato anche dei risultati, no? Purtroppo, poi, la gente ricorda più le cose brutte di quelle belle: in fondo Hitler, per le atrocità che ha commesso, è più famoso di Gesù! Anche con Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine: ci hanno ancora rotto su dove andava sepolto... Ma buttatelo a mare! È gente che ha fatto cose terribili, ancora li ricordiamo... Invece non si parla abbastanza di Madre Teresa o di Gandhi».
Allora ci indichi il luogo che meglio rappresenta, in positivo, l’anima della città.
«Resta magico San Gregorio Armeno, quella parte che Benedetto Croce chiamava extra hortus, Santa Chiara, San Domenico Maggiore, piazza del Gesù. Spaccanapoli, insomma. È il luogo in cui si respira ancora cultura e storia della città secentesca, il palazzo dove ha vissuto Gesualdo da Venosa, il Cristo Velato, le catacombe».
È la Napoli a cui lei rimane più legato?
«Io ho accettato il cambiamento. Anche se il mio viaggio nella memoria mi riporta alla città che viveva come un grande quartiere: quella di Eduardo De Filippo, quotidiano teatro all’aperto».
Molti napoletani doc, come lei, vivono fuori. Ma la napoletanità si può trasmettere ai propri figli?
«La puoi proporre. I miei figli parlano inglese, vanno alla scuola americana. Ma gli mostro le cose che faccio, la tradizione che ho, la mia cultura. Il cibo».
Se tornasse Troisi a Napoli...
«Non torna. Anche se, quando è morto, Franco Califano ha scritto sulla tomba: “non si esclude il ritorno”...».
Ma se Massimo potesse rivedere la sua città, la riconoscerebbe?
«La vedo dura. Secondo me rimarrebbe un po’ male... Ma non solo per la città: è tutto il sistema di lavoro, l’approccio con le cose che ai nostri tempi erano importanti, che è cambiato. A cominciare dall’impegno di denunciare certe cose, che oggi sembra non avere più senso».