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 2013  dicembre 20 Venerdì calendario

ER SOR GIOACHINO MISTERO ROMANO


Roma. Ipocondriaco, tetro, misantropo, oppure viveur, allegro, compagnone? Com’era realmente Giuseppe Gioachino Belli? Dalle testimonianze dei suoi contemporanei a tutte le biografie che gli sono state dedicate nessuno è riuscito a venire a capo del mistero di un uomo profondamente e intimamente contraddittorio. E infatti «liberale e ultra reazionario a un tempo, blasfemo e bigotto, libertino e puritan», lo descrive anche Mario dell’Arco nel suo Ritratto di Gioachino Belli (pp. 140, euro 16) uscito per la prima volta cinquant’anni fa e ora ripubblicato da Castelvecchi in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte del poeta (21 dicembre 1863).
Quanto a personalità scissa, però, anche dell’Arco ci mette qualcosa del suo. All’anagrafe Mario Fagiolo (1905-1996), romano, architetto di fama negli anni Trenta (suoi il palazzo delle Poste di Piazza Bologna a Roma e la fontana monumentale di Terni), dell’Arco è il nom de plume scelto come studioso di letteratura dialettale, poeta e paroliere, rigorosamente in romanesco. Per dire, la sua Pupo biondo del 1927 è la storia strappacore di un reduce cieco che non ha mai visto suo figlio, nato quando lui era al fronte, ed è stata a lungo un hit della canzone romana, cavallo di battaglia di Claudio Villa e Lando Fiorini.
Dei suoi versi romaneschi, peraltro, hanno scritto, benevolmente, personaggi come Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini, con cui tra l’altro Mario dell’Arco ha compilato nel 1952 un’antologia della Poesia dialettale italiana del Novecento, pubblicata da Einaudi.
E insomma, armato degli strumenti del filologo e dell’ammirazione da poeta in proprio per «il massimo autore di sonetti della letteratura italiana» (D’Annunzio) dall’Arco affronta il «mistero», cercando indizi e luce più nella corrispondenza, nei diari e negli appunti di Belli che in quella montagna, «un himalaya di carta stampata », dei 2279 sonetti.
La delusione è forte e man mano più evidente. Perché la vita del Belli è tutt’altro che eroica. Nel 1798, quando ha sette anni, conosce il trauma che lo segnerà per sempre. Con Napoleone arrivano la Repubblica Romana, la deposizione del Papa e il crollo dello Stato pontificio. La famiglia di Belli perde tutto e deve rifugiarsi a Napoli. Già due anni dopo le cose tornano al loro posto, ma Belli porterà da allora con sé la diffidenza ansiosa non solo verso i cambiamenti politici, ma per ogni evento della vita quotidiana. La paura di poter perdere tutto in un istante sarà la sua compagna per sempre.
Ecco allora che Belli, alla vigilia di uno dei suoi non numerosi viaggi, scriverà a un amico: «Numerose orde di antropofagi scorrono quei luoghi, portando in ostaggio sui monti tutti gli infelici che loro vanno cadendo tra le mani. Così io che cerco la salute, troverei la morte o di ferro, o di disagio o di spavento, le quali tutte e tre si somigliano». La stessa paura che lo porterà alla ricerca di sicurezza sposando una donna, Mariuccia Conti di tredici anni più vecchia di lui e ricca, che gli assicurerà per qualche anno una vita da signore, salvo scoprire, quando resterà vedovo, che il patrimonio è fatto in realtà solo di debiti. La stessa ansia sarà il sentimento dominante nei confronti dell’unico figlio, Ciro. È proprio dalle preoccupazioni per la carriera del ragazzo nell’amministrazione pontificia, che Belli lascia scritto nei suoi testamenti di bruciare tutti i suoi versi in dialetto, osceni, anticlericali, blasfemi (per fortuna quella volontà non fu mai rispettata, e, vedi i casi della vita, a mettere al sicuro l’opera del Belli fu invece proprio un sacerdote, monsignor Vincenzo Tizzani).
Una nevrosi incurabile, quella di Giuseppe Gioachino, che ne fa certamente un personaggio poco amabile e difficile da afferrare. Così, un uomo che ha voluto scolpito sulla lapide l’aggettivo romanus era lo stesso che scriveva: «Bbasta sape’ cc’ogni donna è pputtana/e ll’ommini una manica de ladri/ecco imparata l’istoria romana ». E della lingua in cui ha composto i suoi capolavori: «Il parlar romanesco non è un dialetto e nemmeno un vernacolo. È una nuda, gretta e sconcia favella, usata dal popolo per le sue storte opinioni».
I sonetti che compongono «il monumento » alla plebe di Roma sono stati composti tutti, o quasi, sotto il regno di Gregorio XVI (1831-1846), uno dei papi più reazionari della storia. «A Papa Grigorio je volevo bbene, perché me dava er gusto de potenne ddi’ mmale», scriverà Belli alla morte di quel pontefice. Ma non è certo qui che si esaurisce il rapporto: il poeta non fa economia di suppliche per avere udienza, impieghi nell’amministrazione, incarichi letterari.
Di fatto l’autore del ritratto più spietato della Roma papalina, della sua corruzione politica e morale e delle atroci condizioni, materiali e spirituali, in cui è costretto a vivere il popolo della città, si è sempre sentito al sicuro all’ombra dello Stato Pontificio. E all’avvento della Repubblica Romana del 1848 e di Mazzini (che pure lo conosceva e lo ammirava) vivrà momenti di puro terrore.
Quando muore, Belli è noto soprattutto per i suoi versi comici, satirici, osceni. Nei decenni la fama crescerà continuamente, e nel corso del Novecento conquista definitivamente la sua posizione fra i grandi poeti italiani. I suoi 2279 sonetti non sono solo il «monumento alla plebe di Roma» che il poeta aveva dichiarato di voler costruire. Sono anche la denuncia indignata delle storture del potere, la descrizione realistica di una società arretrata, la pietà compassionevole verso «la vita dell’omo», la condizione umana.
Nel 1963, a cent’anni dalla morte, l’intenzione di Mario dell’Arco è dunque quella di celebrare un grande. Ma è andato alla ricerca dell’eroe, e non è riuscito a trovarlo. Alla fine il biografo si arrende e confessa: il suo è «un ritratto mancato». Una volta di più, un punto a favore di Proust nella polemica contro Saint-Beuve: la grandezza degli artisti sta nelle loro opere, non nelle loro povere vite.