Ettore Boffano, Il Venerdì 20/12/2013, 20 dicembre 2013
LA VERA DOLCEZZA? UN GESTO SBAGLIATO, E SI ROVINA TUTTO
LUSERNA SAN GIOVANNI (Torino) - Willy Wonka indossa un camice bianco, ha una parlata veloce e chiara, appena venata da un leggero accento lombardo, e usa parole che rivelano subito la sua laurea in tecnologie alimentari. Il resto della Fabbrica di cioccolato, invece, è proprio come deve essere: un odore di cacao che ti inebria da tutte le parti, la granella di nocciole che stuzzica all’inverosimile le papille gustative e poi quella crema liquida e marrone che prima si addensa in grandi miscelatori e infine scorre nei lunghi tubicini di un «ottovolante della golosità». Per diventare un cioccolatino, una pralina, un babbo natale fondente e da mangiare, una stella cometa al latte.
Migliaia e migliaia di «pezzi», come li chiama il direttore dello stabilimento, Roberto Colombo (il Willy Wonka in camice bianco): un eterno treno della dolcezza che non si ferma mai. Come nel racconto di Roald Dahl o nel film con Johnny Depp. Le macchine che li producono sembrano magiche e possono cambiare funzione all’improvviso, per adattarsi a ogni formato, quasi 600 e tutti diversi: «Duri, pieni e rasati, a sfere accoppiate…».
Questa volta, però, la Fabbrica di cioccolato è qui davanti ai nostri occhi. Vera e fisica, innanzitutto: cemento armato, acciaio, computer e nastri trasportatori, macchine impacchettatrici, quintali e quintali di zucchero, burro di cacao, nocciole (la Tonda Gentile delle Langhe, soprattutto, la migliore al mondo, anche se la burocrazia ora obbliga a chiamarla «Piemonte IGP»), enormi cisterne piene di latte. E poi anche in carne e ossa: dei suoi 400 dipendenti che la fanno funzionare seguendo un calendario speciale che prevede solo tre stagioni. Quella di questi giorni, la «campagna di Natale »: che in realtà ha concluso la sua produzione a metà novembre, per lasciare il posto alla «campagna primavera» che guarda già a San Valentino e a Pasqua. Ultima, la «campagna bon bon»: il trionfo delle caramelle e delle gelatine dolci.
Siamo nella Storia dell’industria dolciaria italiana, in quella Caffarel e Prochet nata nel 1826 da un’idea di un ricco valdese, Pier Paul Caffarel, che decise di trasformare una conceria sulle rive della Dora, in quella che allora era una periferia di Torino, nella sua personale fabbrica di cioccolato. Fu subito fortuna, segnata da due invenzioni destinate a creare un mercato. La prima fu un’intuizione quasi geniale: usare almeno il 30 per cento di nocciole per creare l’impasto, consentendo di risparmiare sul cacao. La seconda continuiamo a mangiarla da un tempo che è addirittura più lungo dell’unità d’Italia: il giaduiotto, il cioccolatino torinese che ha conquistato il mondo. Caffarel fu il primo a produrlo, nel 1852. Allora si chiamava givu, la parola del dialetto piemontese che indica il mozzicone del sigaro: un richiamo a quella forma tozza e troncata, che ricorda un po’ una barchetta, un po’ davvero un mozzicone. Il nome gianduiotto gli derivò dallo storico carnevale di Torino del 1865, quando la popolare maschera subalpina, Gianduja, sfilò nel tradizionale corteo per le vie della città distribuendo proprio i cioccolatini di Pier Paul. Che fu anche l’inventore del metodo per produrre i «mozziconi» prelibati. Un sistema che un tempo era gestito tutto a mano e che oggi è stato trasferito a delle macchine.
Lo chiamano con un nome all’apparenza ostico, poco alimentare, quasi imbarazzante in un posto come questo: «estrusione». In altre parole, un movimento ritmico che fa colare la crema di cacao e nocciole in un certo modo e, con altrettanta particolarità, lo tronca all’improvviso. Questione di secondi: uno in più o uno in meno potrebbero rovinare tutto. Il segreto è in quella movenza: quasi come certi colpi dei campioni di bigliardo per tagliare la palla e indirizzarla nell’angolo prescelto.
Ancora oggi il gianduiotto è il simbolo della Caffarel, presentato spesso in confezioni che riportano l’immagine di Gianduja. «Lo produciamo per 100 giorni all’anno » spiega Colombo «e la procedura è rimasta quella delle origini». Tutto avviene adesso nello stabilimento aperto nel 1968 a Luserna San Giovanni, vicino a Pinerolo e in quella Valle Pellice dove abita anche la Chiesa Valdese, quasi a segnare le origini degli albori dell’Ottocento. Dal 1998, gli eredi di Pierre Paul Caffarel hanno venduto alla svizzera Lindt, ma il marchio è rimasto: con la sua indipendenza assoluta e i suoi metodi. «È stata una scelta precisa» avverte l’amministratore delegato, Vincenzo Montuori «Lindt era consapevole che si trattava di un gruppo solido, ben inserito sul mercato italiano e straniero e con delle conoscenze tecnologiche all’avanguardia nel settore».
E questi primi 15 anni della nuova gestione hanno dato ragione agli elvetici: Montuori snocciola dati che non lasciano dubbi. Quaranta milioni di pezzi prodotti in un anno, esportazioni in 50 Paesi del mondo, 12 mila clienti in Italia, un fatturato di 60 milioni di euro (+ 12 per cento rispetto all’anno precedente) e il 30 per cento in più di export nel 2012, nove negozi monomarca sparsi nei vari continenti (l’ultimo dei quali aperto a Osaka, in Giappone), l’aggressione ai mercati emergenti (Paesi arabi, Brasile, Cina). Poi due fiori all’occhiello: 500 mila euro investiti ogni anno per la sicurezza in azienda e l’edizione 2013 del premio Io lavoro-H, per l’inserimento dei dipendenti disabili.
Il mix di un successo che puoi capire solo seguendo Willy Wonka-Colombo mentre ti fa attraversare i 20 mila metri quadrati dello stabilimento, dall’ingresso con lo stoccaggio dei prodotti di base sino al grande magazzino da dove le partenze per la «campagna di Natale» ora sono frenetiche. Modernità e tecnologie computerizzate associate però a pezzi di una vecchia tradizione industriale che sembrano eterni. Come il «tostino» per le nocciole (una sorta di grande centrifuga riscaldata) o il «tunnel frigorifero» di legno dove un nastro trasportatore fa passare un vortice di cremini. Due oggetti che qui venerano e accudiscono come degli idoli: «Non vogliamo che si rompano » si accalora Colombo «dovremmo sostituirli e quelli nuovi non rendono come questi».
O guardando le vetrinette del piccolo museo interno nel salone dove Montuori spiega i successi della Caffarel. Vecchie scatole di metallo in stile liberty, la cassetta del «commesso viaggiatore» con la riproduzione in gesso delle tavolette di cioccolato, l’album con i campioni delle carte-stagnola color rosso e oro per gli involucri delle confezioni, il diploma con il quale Vittorio Emanuele II garantiva il suo gradimento, anche dalla nuova capitale d’Italia trasferita a Firenze, la ricetta su carta ingiallita che recita proprio così: «Per Fare Il Cioccolato».
Infine, il testo-slogan di un’antica réclame. Oggi i pubblicitari la boccerebbero, a cominciare dall’eccessiva lunghezza. Mette tanta nostalgia, ma è certo che se Dahl l’avesse conosciuta ne avrebbe fatto uno dei pensieri del suo Willy Wonka: «La fabbrica di cioccolato Caffarel Prochet ha il vanto di poter affermare che chi assaggia il suo cioccolato non acquista più altre marche».