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 2013  novembre 28 Giovedì calendario

TRA FRANCESCO E SOFIA, NOI COME LO CHIAMEREMO?


«Lo chiameremo Andrea» s’intitolava un celebre film di Vittorio De Sica in cui due maestri elementari che non riescono ad avere un figlio compensano l’assenza, vagheggiandone l’ipotetico nome. Era il 1972 e Andrea rappresentava l’Italia, il nome più diffuso in un Paese di emigranti, di cambiamenti culturali, di tradizioni nonostante tutto solide. Cosa ci dice sulla società del nuovo millennio l’ultimo atlante della natalità dell’Istat che accanto all’«evergreen» Andrea aggiunge Francesco, Sofia, Alessandro, Giulia, ma anche Mohammed, Youssef, Rayan, Melissa, Marwa, Kevin, Zakaria e Yasmine?
I dati del bilancio demografico del 2012 fotografano un Paese in cui i bambini (italiani) continuano a diminuire (12 mila meno del 2011 e 42 mila meno del 2008, mentre i figli di stranieri sono 2800 in più del 2009), le mamme sono sempre più agée (oltre il 7% è almeno 40enne) e, con buona pace del tardivo riconoscimento giuridico, si affermano i genitori «di fatto» (una coppia su 4 non è sposata). Ma non basta. Elencando i nomi più gettonati, l’atlante racconta il background, i riferimenti e le ambizioni dei genitori nostri contemporanei, buona parte dei quali immigrati.
«Il tema è molto interessante, parla di identità culturale così come ne parla la lingua che gli stranieri usano in famiglia, tra le mura domestiche», osserva Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori all’Università di Milano e autore dello studio «I nuovi vicini», pubblicato dall’Osservatorio regionale immigrazione della Lombardia.
Comunità diverse fanno scelte diverse. Così, per esempio, i cinesi prediligono nomi italiani (Matteo, Andera, Alessandro, Sofia, Elena, Elisa), mentre i tunisini, i marocchini e gli indiani custodiscono la memoria delle proprie radici ribadendola nell’appellativo dei figli (Omar, Mohammad, Ahmed, Hiba, Sara, Armaan Gurnoor Manjot, Jasleen). Tutti poi fanno grossomodo scelte più conservatrici per i bambini (custodi della storia famigliare?) e riservano le tendenze suggerite dal Paese ospite alle bambine.
Secondo Ambrosini, la scuola materna è la chiave di lettura principale per leggere i livelli d’integrazione: «Tra gli italiani la scelta del nome riflette differenze di classe sociale, quelle più popolari fanno riferimento all’iconografia pop, calciatori o miti esotici, mentre i più colti si affidano da qualche anno alla tradizione, Lorenzo, Fiammetta, Virginia. Gli immigrati invece hanno comportamenti meno schematici, indicativi anche della volontà di immaginare per i figli un futuro italiano: i latino-americani sono più esposti alla cultura di massa e possono addirittura optare per nomi che in realtà sono cognomi tipo Clinton, gli arabi sono un po’ più tradizionali, ma è significativo che si diffondano nomi come Sara appartenenti alla cultura indigena e a quella locale, i cinesi si caratterizzano per il doppio nome, cinese in casa e fuori, dove sarebbe impronunciabile, italiano».
La semplicità è sicuramente una motivazione nella decisione degli stranieri di «normalizzare» la routine dei figli. Anche perché un nome complicato può portare a labirinti kafkiani come quelli attraversati dal brasiliano Rodrigues De Lana Soares Geraldo Magela, che si è visto riconoscere solo adesso da Tar del Piemonte la cittadinanza, negatagli nel 2005, perché il suo nome si moltiplicava in troppi «alias», rendendo difficile l’accertamento della sua identità.
Ma il nome, oggetto di studio di linguisti e filosofi, da Roman Jakobson a Derrida, è molto più di un marchio sul documento, è la proiezione dell’Io sul mondo esterno, quello che rimane quando altri tipi di barriere (linguistiche, culturali, generazionali) impediscono la conoscenza reciproca.
Gli stranieri, che facendo più figli rinnovano la società italiana, vi si proiettano finendo per influenzarla (molti italiani chiamano la figlia Nur, in arabo «luce»). L’ultima ristampa de «Il libro completo dei nomi» (De Agostini) è stata necessaria proprio per aggiungere al catalogo i neo gusti.
«Entrano Pilar o Kevin ed esce per esempio Sue Ellen, icona degli Anni 80 e del telefilm Dallas» spiega l’autore Gili Gioachino. Sembra che l’immaginario globalizzato impatti sul nome prima ancora che sui comportamenti.