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 2013  novembre 28 Giovedì calendario

QUANDO L’EUROPA ERA TORNATA SELVAGGIA


Chi vede oggi l’Europa come un opprimente mostro burocratico, chi sogna di abbattere l’euro, chi pensa di liberarsi dalla «schiavitù» di Bruxelles e di tornare alla lira richiudendosi nei propri confini, deve pensare a cos’era questa Europa quando il sogno dell’integrazione è nato e ha mosso i primi passi: un campo di battaglia dominato da devastazioni e rovine. E non si può dimenticare che grazie alla faticosa costruzione dell’unità europea – pur incompiuta, incompleta, contraddittoria – abbiamo vissuto quasi settant’anni di pace, circostanza del tutto inedita nella storia dell’umanità.
Un nuovo spettro, tuttavia, si aggira attraverso questa Europa con sembianze imprevedibili: diktat, parametri, vincoli e criteri coercitivi, percentuali numeriche che diventano termometri di crescita e benessere. Ma com’è possibile che la spinta alla costruzione di uno spazio europeo, le dinamiche del lungo dopoguerra nel vecchio continente siano spesso schiacciate sulla verifica impietosa di una contabilità prescrittiva?
La cultura della crisi, il disfattismo diffuso e semplicistico rischiano di portarci fuori strada, in un vicolo cieco. L’Europa non è un prodotto da laboratorio, né un edificio indistinto frequentato da burocrati più o meno illuminati. Il suo cammino è segnato dal dolore dell’età della catastrofe, dai terribili numeri del secolo scorso, dalla scelta di lasciarsi alle spalle lutti, guerre e distruzioni. Se perdiamo di vista tale prospettiva, se la profondità del passato svanisce, tutto appare schiacciato su un presente senza tempo in una dimensione astorica che si popola di ombre, paure ricorrenti che foraggiano scorciatoie populistiche o chiusure illusorie in nuovi egoismi nazionali.
La lettura del volume di Keith Lowe (Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale, Laterza, pp. 498, € 25) spinge nella direzione opposta, verso il recupero di una consapevolezza perduta in grado di restituire un senso alle cose, a un itinerario collettivo che altrimenti rischia di scivolare su pericolose opzioni strumentali. Sono pagine appassionate sorrette da una ricerca attenta e selettiva: archivi, memorie, giornali, guide turistiche, riflessioni di studiosi di vari Paesi. Il nesso indagato è quello di uno spazio sospeso tra la fine del conflitto e l’inizio della ricostruzione: ciò che avviene prima del lancio del Piano Marshall, prima degli effetti del processo di Norimberga «approssimativamente, gli anni dal 1944 al 1949». Un punto di vista originale sulla cesura del 1945 e sulla dialettica tra guerra e dopoguerra.
L’autore chiarisce il suo obiettivo strategico, retrodatando le origini della rinascita post-bellica. Mette a fuoco un tempo e uno spazio segnati dall’assenza di regole e principi e dalla spinta alla sopravvivenza come unico motore della quotidianità: «Concentro l’attenzione su un momento precedente, prima che quei tentativi di riabilitazione fossero anche solo immaginabili, quando la maggior parte dell’Europa era ancora estremamente volatile, e la violenza poteva divampare di nuovo alla minima provocazione. In un certo senso tento l’impossibile: tento di descrivere il caos. Lo farò scegliendo alcuni elementi di quel caos, e indicando in che modo essi fossero legati da temi comuni».
Il percorso segue i fili di un tessuto strappato, lacerato da odi e violenze, devastato dalla modernità di una guerra senza precedenti: oltre 35 milioni di morti, città rase al suolo, cumuli di macerie che impediscono di scrutare l’orizzonte. La distruzione è un dato diffuso, abbraccia diversi ambiti: quello della fisicità di case, ponti e strade, ma soprattutto quello sociale, politico, morale. L’inesistenza di un contesto condiviso, la provvisorietà della legge, l’assenza di istituzioni e indirizzi e la diffusione di comportamenti riprovevoli: «Non sembra nemmeno essere chiaro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La gente ruba tutto quel che vuole. Uomini in armi vagano per le strade minacciando chiunque intralci il cammino. Non c’è vergogna. Non c’è moralità».
Difficile per chi ha avuto in sorte di venire dopo immaginarsi una realtà del genere, avere contezza delle tappe di un percorso di libertà che, nonostante tutto, ha accompagnato i decenni che abbiamo alle spalle. Come descrivere le rappresaglie, le vendette sanguinose, i terribili episodi di pulizia etnica o lo spostamento di milioni di uomini e donne attraverso confini e appartenenze perdute? E ancora quale terribile lascito di violenze e prevaricazioni condiziona la fase di avvio della Guerra fredda nell’Est europeo. Eppure nel buio del continente selvaggio si accende la luce del futuro lungo la ricerca di un nuovo inizio con la parola d’ordine «mai più guerre».
Un giovane fotografo delle Nazioni Unite arriva a Varsavia e scrive a sua moglie: «È davvero una città incredibile e vorrei dartene un’idea, ma non so come fare. È una grande città, vedi. Oltre un milione di abitanti prima della guerra. Grande come Detroit. Ora per il 90 per cento è tutto distrutto. Dovunque ti aggiri trovi grandi pezzi di edifici che stanno in piedi senza tetto o molta parte dei muri laterali, e la gente che vive in essi. Non riesco a capire come sia stato possibile fare tutto questo… è qualcosa di orribile, non posso crederlo».
Raccontare l’irraccontabile, allora come oggi, contro usi e abusi di memorie in conflitto. Lowe nelle pagine conclusive mette in guardia dalla retorica degli anniversari: «Dimenticare non è un’opzione possibile. I fatti distorti sono molto più pericolosi di quelli reali. Ma non dovremmo desiderare di dimenticare né gli uni né gli altri. È la nostra memoria del passato che ci rende quello che siamo, non solo a livello nazionale ma anche a livello intensamente personale».