Luigi Reitani, Il Sole 24 Ore 24/11/2013, 24 novembre 2013
BREVITÀ ILLUMINANTI
Nelle storie della letteratura è una presenza ingombrante, fonte di un certo imbarazzo. Chi, infatti, legge o mette in scena oggi le indigeste tragedie del tedesco Friedrich Hebbel (1813-1863), se non con intenti decostruttivi? Drammi come I Nibelunghi o Giuditta sembrano fatti apposta per mettere in fuga sin dal titolo gli spettatori, e anche la non disprezzabile Maria Maddalena è ormai relegata nello scaffale dei libri riservati ai seminari di germanistica. Non sorprende, dunque, che il bicentenario della morte di questo scrittore dalla vita a dir poco difficile, approdato a Vienna, capitale del mondo teatrale, dopo aver letteralmente sofferto la fame ad Amburgo e Monaco, sia passato quasi inosservato in patria, nonostante la maniacale attenzione dedicata in Germania agli anniversari illustri.
Eppure c’è una parte dell’opera di Hebbel che appare non scalfita dal tempo e che anzi col passare degli anni è diventata un oggetto di culto in cerchie sempre più estese. Si tratta delle osservazioni sparse nei Diari dello scrittore, frutto di un costante esercizio di analisi e di autoanalisi, distillato di una quotidianità amara, che conosce l’agro sapore della miseria e l’aspro cimento dell’arte. Ma più dell’introspezione, ciò che colpisce in Hebbel è la capacità di distacco dal mondo e da se stesso, plasticamente espressa in acute riflessioni di carattere generale. Ne deriva una spiccata tendenza all’aforisma, che fa di questo bistrattato drammaturgo un inaspettato gigante del genere, un vero maestro di stile, che nei momenti di maggiore lucidità e pregnanza non perde nel confronto con Lichtenberg, Kraus o lo stesso Nietzsche.
Non è certo un caso che l’ultima riproposta di Hebbel come scrittore di aforismi giunga da un raffinato non addetto ai lavori come il pianista Alfred Brendel, che dalle oltre seimila annotazioni contenute nei Diari ne ha selezionate circa un centinaio, raggruppandole in cinque dense sezioni tematiche. Nella migliore tradizione dell’illuminismo europeo Hebbel fa del dubbio e della mobilità del pensiero il proprio principio ispiratore: nessun dogma («alla fin fine la cosa migliore, nella religione, è il fatto che susciti eretici»); nessuna fiducia in valori prestabiliti; spiccata curiosità per la vita in tutte le sue forme. Solo che, a differenza di tanto ingenuo illuminismo, l’autore non si illude sulle prospettive del creato e neanche sulla natura dell’uomo o sulle qualità degli individui (giacché «ogni carattere è un errore»). A uno a uno la sua penna demolisce anche i precetti più consolidati: «spesso al mio prossimo non ne verrebbe molto se io lo amassi come me stesso». La stessa sensatezza del mondo sembra a Hebbel un’illazione poco fondata. È così che il tragediografo per eccellenza dell’Ottocento finisce per trovare nel comico e nel grottesco la dimensione più autentica della realtà, preferendo addirittura le commedie di Nestroy (autore di una divertente quanto spietata parodia ai suoi danni) ai "trampoli giambici" dei propri colleghi di genere. Se l’arte della prosa aforistica è un’arte del sottrarre, Hebbel ne dà prova eccellente in folgoranti frasi ellittiche, tradotte con sicura eleganza da Elisabetta dell’Anna Ciancia. Sapendo però bene che «con i lampi si può illuminare il mondo, ma non accendere la stufa».