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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

OMBRE CINESI SUGLI STATI UNITI


Con l’accordo dell’ultimo minuto sul tetto all’indebitamento gli Stati Uniti hanno schivato un’altra pallottola, ma con 90 giorni a disposizione per colmare la spaccatura ideologica tra gli schieramenti prima che esploda un’altra crisi, la miccia del debito americano si fa sempre più corta.
Il Governo americano è a un passo dall’abisso e la Cina, il maggiore creditore estero dell’America, ha molto da perdere.
Tutto cominciò in modo innocente. Nel 2000, la Cina deteneva solo una sessantina di miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa, più o meno il 2% dei 3.300 miliardi di debito pubblico americano in circolazione.
Poi, tutti e due i Paesi hanno cominciato ad alzare la posta: il debito pubblico degli Usa è esploso arrivando quasi a 12mila miliardi di dollari (16.700 se si mette nel conto anche il debito detenuto da altri organismi pubblici) e la quota della Cina è più che quintuplicata, arrivando, nel luglio 2013, quasi all’11% del totale (1.300 miliardi di dollari). Aggiungendo i circa 700 miliardi di dollari in titoli di debito emessi da agenzie del Governo Usa (Fannie Mae e Freddie Mac), si giunge a un totale di 2mila miliardi di dollari di esposizione della Cina in titoli pubblici e semipubblici americani: una cifra imponente.
Gli acquisti, apparentemente senza limiti, di titoli di Stato Usa da parte di Pechino sono l’elemento centrale di una ragnatela di dipendenza reciproca che acceca le due economie. La Cina non compra buoni del Tesoro americani per benevolenza o perché guarda all’America come un esempio di ricchezza e prosperità. E non è attratta dai rendimenti e dall’apparente assenza di rischio dei Treasuries, fattori discutibili in un’era di tassi a zero e preoccupazioni di rischio default. E non è una questione di simpatia: la Cina non presta soldi all’America per alleviare le tensioni interne di Washington.
La Cina compra perché è funzionale alla politica valutaria e al modello di crescita trainata dall’export a cui si è affidata negli ultimi 33 anni. Con la sua eccedenza di risparmi, dal 1994 la Cina è in attivo nel saldo con l’estero, e ha accumulato un imponente portafoglio di riserve in valuta estera che ammonta a 3.700 miliardi di dollari.
Il 60% di queste riserve Pechino le ha riciclate in titoli di Stato americani denominati in dollari, perché vuole contenere qualsiasi rivalutazione dello yuan rispetto alla moneta di riferimento a livello mondiale. Se la Cina comprasse meno dollari, il tasso di cambio dello yuan - salito del 35% rispetto al dollaro da metà 2005 - si rafforzerebbe in modo molto più netto di quanto non abbia già fatto, mettendo a rischio la competitività e il modello di crescita incentrato sull’export.
Questa situazione all’America calza come un guanto. Per via del bassissimo tasso di risparmio interno, gli Usa sono in passivo nella bilancia delle partite correnti e si affidano agli investitori esteri per colmare il buco. I politici statunitensi danno questo apporto per scontato, un privilegio garantito dal ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale. Quando qualcuno li interroga sulla dipendenza del Paese dai prestatori esteri, ribattono compiaciuti: «Dove altro potrebbero andare?».
L’America beneficia del modello di crescita della Cina anche sotto altri punti di vista. L’acquisto da parte di Pechino ha contribuito a tenere bassi i tassi di interesse e questo garantisce un sostegno ad altri mercati (come quello azionario e immobiliare) la cui valutazione dipende, in parte dai tassi di interesse "sovvenzionati" dai cinesi. E i consumatori americani della classe media, alle prese con le difficoltà economiche, traggono beneficio dalle importazioni di prodotti cinesi a basso costo che consentono di spendere pur in una fase di pressione su lavoro e redditi reali.
Per oltre vent’anni, questa dipendenza reciproca e reciprocamente vantaggiosa ha servito entrambi i Paesi. Ma il passato non deve essere visto come un preludio: un sommovimento sismico è dietro l’angolo e le follie americane sulla gestione della spesa pubblica potrebbero essere la spinta decisiva.
La Cina ha preso la decisione di modificare la strategia di crescita. Il XII piano quinquennale, del marzo 2011, propone un quadro per un modello di crescita più equilibrato, fondato sui consumi interni dei privati. Il piano sta per essere messo in pratica. A novembre è previsto un importante appuntamento - la terza riunione del Comitato centrale eletto dal 18° congresso del Partito comunista cinese - che sarà un banco di prova per la nuova dirigenza in favore di un’agenda dettagliata di riforme e misure necessarie per il cambiamento.
Il disastro sul tetto all’indebitamento ha inviato un messaggio alla Cina, che si va ad aggiungere ad altri allarmi. La fiacchezza della domanda aggregata negli Usa probabilmente persisterà, sottraendo agli esportatori cinesi il supporto del loro principale mercato estero. Gli attacchi anticinesi capeggiati dagli Usa rimane una minaccia concreta. E ora è a rischio la solvibilità degli Usa. In economia, è raro che un allarme suoni in modo così forte e chiaro.
Il riequilibrio è l’unica opzione disponibile per la Cina. Diversi fattori interni - consumo delle risorse, degrado dell’ambiente e disuguaglianze - mettono in discussione il vecchio modello, mentre molte forze che hanno il loro epicentro negli Usa attestano la necessità di un riallineamento.
Ci sarà una riduzione dell’eccedenza di risparmio cinese, un rallentamento dell’accumulazione di riserve valutarie e un calo della domanda cinese di attività in dollari. La riduzione degli acquisti di Treasuries sarà conseguenza logica. A lungo dipendente dalla Cina, l’America potrebbe trovarsi a pagare un prezzo più alto per assicurare i capitali esteri.
Gli opinionisti cinesi hanno parlato provocatoriamente dell’inevitabilità di un "mondo deamericanizzato". Per la Cina non è una corsa per il potere: è una strategia per fare quello che è giusto per la Cina di fronte agli inquietanti imperativi di crescita. E i giorni degli acquisti illimitati di buoni del Tesoro americani finiranno presto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)